Agorà

TESTIMONIANZA. Sangue russo per l’Italia libera

Massimiliano Castellani giovedì 21 aprile 2011
Una raffica di mitra lo colpì alla gola e al cuore e il "gigante buono" Fjodor cadde leggero sulla neve che s’arrossava del sangue del fratello russo, venuto coi suoi compagni a liberare l’Italia. Finisce così, il 2 febbraio 1945, con una tragica scia rossa sulla candida neve della Val Borbera il lungo cammino di resistenza che aveva portato Fjodor Poletaev dalla lontana Kastino – regione sovietica di Rjazan –, a combattere insieme ai nostri partigiani contro le truppe naziste. Una storia, quella dell’unico partigiano straniero medaglia d’oro al valore militare in Italia, degna della profonda vena narrativa di Beppe Fenoglio che nel suo Partigiano Johnny al capitolo «mancante» (l’ottavo) parla del russo Valodkia, «centro dell’ammirata curiosità dei compagni di Johnny». E poi ancora al capitolo 11 Fenoglio scrive: «Gli ammiratori del russo della prima visita chiesero forte della sua sorte. Rispose il capo con la sua voce sonora – Valodkia è morto…». Una morte eternata da uno dei massimi epigoni della nostra letteratura, quanto invece è poco celebrata, al di là delle attente memorie partigiane, la sorte avversa del sergente Poletaev, spesso associato al personaggio fenogliano. Figlio di una famiglia contadina, era orfano di padre, morto in un incidente sul lavoro presso il mulino dello "spietato" Losilin: la prima grande ferita per "Fedja", che già a 11 anni si mise sul piede di guerra per fronteggiare i soprusi e le ingiustizie sociali della Russia zarista. Fu la miseria a costringerlo ad abbandonare i banchi di scuola e a congedarsi dalla maestra Lebedeva–Nazarova, che molti anni dopo la sua morte lo ricordava come un bambino che «si distingueva per la sua alta statura, la forza fisica, ed era molto altruista». Fjodor in russo significa «di ferro». La muscolatura possente delle sue braccia ne fece un precoce quanto attivo operaio, che estraeva la torba per la centrale elettrica di Pavloskij Possad, e poi il fabbro e il contadino più forte del kolkhoz del suo villaggio. Il gigante buono sollevava di peso e si metteva in spalla fino a tre bambini. Lo spirito del combattente affinato prima del richiamo alle armi nel 1939 quando, trentenne e già padre di 4 figli, fu arruolato nell’Armata Rossa.Da Mosca a Stalingrado, nella steppa lambita dalle acque del Don, ovunque l’impegno del sergente sulla neve Fjodor fu quello di debellare il nemico nazista. «Vi raggiungeremo», era il monito dell’Esercito Rosso alle Ss, ma nel tentativo di rompere l’accerchiamento delle truppe hitleriane nel giugno del ’44 Fjodor venne catturato e internato nel lager di Vjaz’ma. Una prigionia durata appena un mese, passando sui carri piombati per Perticev, poi in Polonia fino all’approdo nel campo di concentramento di Tortona. A luglio il sergente con altri compagni russi riuscì a evadere e a unirsi sulle colline ai partigiani della Brigata Oreste nella divisione Pinan Cichero, andando poi a combattere con i partigiani del distaccamento "Nino Franchi". Uomini valorosi come lui, stanziati lassù tra i boschi della Val Borbera, che avevano la massima considerazione di questo russo che masticava poco l’italiano, ma che inteneriva il cuore – ricordavano i paesani di Cantalupo Ligure – quando sillabava tra l’incerto e il divertito la parola, «b–a–m–b–i–n–o». Quella sporca guerra doveva pur finire prima o poi e sognava di tornare dai suoi bambini Fjodor che, intanto non si risparmiava nelle azioni contro il nemico tedesco, fino all’ultimo attacco fatale nella Valle dei fulmini. «Venne il burrascoso mattino del 2 febbraio. Aveva appena cominciato ad albeggiare quando gli avamposti del "Castiglione" videro i nazisti che venivano all’attacco», scrivono Baskov e Zadanov nel libro Il soldato Fedor Poletaev (Agenzia Novosti, Mosca 1975). È l’alba rossa dello scontro finale di San Nazzaro, in cui il Gigante, con la neve fino alle ginocchia, schiumava sete di rivalsa contro il tedesco combattendo al fianco dei capi partigiani Tigre e Falco e dei compagni russi Viktor e Putilin (con lui tre dei quasi cinquemila sovietici che parteciparono alla Resistenza italiana). Al grido di «Avanti Oreste!», sul ponte di San Nazzaro furono ore di scontri con perdite soltanto tra le file della Wehrmacht (12 morti, 5 feriti e 46 prigionieri) con un loro tenente che in ritirata avrebbe raccontato sconvolto: «Siamo stati attaccati da mille partigiani». Erano soltanto 65 gli eroi di una giornata trionfale, con scene di battaglia da ricordare a petto in fuori un giorno. Magari davanti al fuoco con la sua famiglia riunita, nella casa di Kastino, se solo Fjodor deciso a salvare il suo Comando non si fosse scagliato all’inseguimento di quell’ultimo drappello composto da una cinquantina tra tedeschi e mongoli. Sfiorava il Borbera e deve aver pensato di trovarsi sul Don, quando quella raffica lo freddò. Unico caduto di quella straordinaria giornata a soli due mesi e mezzo dalla fine della guerra. Per il Gigante russo seguì un funerale semplice e la sepoltura nel piccolo cimitero di Rocchetta (oggi riposa in quello di Staglieno) dove fino al 1960 venne annoverato come Fjodor Poeta o Poetan. Una fine quasi da milite ignoto, combattendo in terra straniera, con la madre e la moglie Maria che lo credevano morto già dal 1942, fino a quando lo scrittore e giornalista Serghej Smirnov, con l’ausilio degli ex partigiani, venne a conoscenza dell’eroica vicenda umana e militare di colui che all’anagrafe di Gorlov era stato registrato come Fjodor Andrianovich Poletaev.Una storia ancora divulgata nell’Italia dell’immediato dopoguerra e l’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi conferì al sergente russo la massima onorificenza: la medaglia d’oro al valore militare. L’unica assegnata dall’Italia a un partigiano straniero. Il giusto riconoscimento all’eroe di due nazioni, perché anche l’Unione Sovietica lo riconobbe tale nel ’62. E trent’anni dopo (febbraio 2003), al monumento che lo ricorda a Cantalupo, per omaggiare la memoria del gigante buono arrivò in Val Borbera l’uomo della perestroika. L’ex premier russo Michail Gorbaciov, venuto per rivivere l’ultimo atto della vita di un uomo umile consacrato alla libertà e per rileggere mentalmente quei versi del partigiano Bini – che sulla Pravda aveva tradotto il poeta Slutskij – in cui sta scritto: «Ma tu Fiodor, fratello, giacevi e la neve nell’ultimo istante ti sarà parsa la neve di Mosca».