I luoghi dei campioni. San Paolo, abbracci dal Brasile
Il portiere della Seleçao Gilmar, campione del mondo nel 1958 e nel 1962
Abbracci dal Brasile Ed è così che ti ricordo meglio, San Paolo del Brasile: in quel quartiere Cambuci della mia infanzia avvolto dall’intreccio dei dialetti italiani, che sapevano di nostalgie, cicatrici e fatiche, di quando eravamo noi, reduci da guerre, fame e trincee, a partire, lacrime di madri al molo, verso viaggi che grondavano rimpianti e speranze. Salpavamo per navigazioni estenuanti, onde adulte e riflessi di stelle a confortare la malinconia. I miei bisnonni, i miei nonni e i miei genitori: figli della zolla dura e del coraggio atavico, contadini e artisti, soldati e funamboli. Il Brasile diventò la terra promessa, il segno del destino, ma sempre lì al centro esatto del cuore quel lungo rimpianto chiamato Italia. San Paolo: metropoli di ferro e poesia, del calcio subito amato e giocato. Con mio padre andavamo ad applaudire i giocolieri del Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia, la squadra dei nostri immigrati, maglia verde e P bianca. Centravanti era José Altafini, che tutti chiamavano “Mazola”, con una zeta sola, per la sua somiglianza, invero straordinaria, con Valentino Mazzola, capitano degli Invincibili del Grande Torino, caduti a Superga. Venne acquistato dal Milan per via delle sue abbaglianti prodezze. Fu uno dei campioni del mondo del 1958, al fianco dell’ex lustrascarpe mineiro Pelé e del favoloso, tragico “angelo dalle gambe storte”, messo in rima da Carlos Drummond de Andrade, Mané Garrincha. Altafini è, oggi, uno dei miei migliori amici e, ridendo largo, mi dice sempre: «Quando entravo in campo salutavo sempre te e il tuo papà, non ti ricordi?». Oh, San Paolo del mio pallone e del mio aquilone, di quando eravamo più poveri e più felici e a Natale bastavano, per essere in paradiso, un camioncino di plastica e un cavalluccio di legno, e tutti erano ancora vivi e tutto era ancora possibile. Sono ritornato da te tante volte, San Paolo. A rivedere la casa dove sono nato e provare la vertigine del passato, a portare i fiori ai miei fratellini morti, a perdermi nei tuoi labirinti di letteratura e frenesia, come sottolinea l’antropologo Bruno Barba, paulistano di patria sentimentale. E mi sovviene il nostro incontro (l’ennesimo), dottor Socrates. In un bar sull’Avenida Paulista, dopo la tua parentesi italiana, a Firenze. Sì, Firenze: che ti vide parlare di Marx e di democrazia nelle università e nei circoli operai, con gente incontrata per caso. Già, «democrazia».
Negli anni della dittatura, portasti quella parola vietata dai generali sui campi di calcio, al tuo fianco, come tigrotti di Mompracem, gli altri compagni del Corinthians. Che avventura, quella della «Democrazia Corinthiana»! Il socialismo applicato (con i militari al potere) al pallone, una compagine autogestita, le scelte tattiche, i ritiri e, persino, le cessioni decisi da voi giocatori riuniti in assemblea. Ma ancora di più: «Democrazia» scritta sulle vostre magliette e sugli striscioni che, con orgoglio, portaste, stringendoli forti, sul verde del prato. E finalmente terminò quel nero orrore cominciato nel 1964, grazie anche a voi campioni senza paura e a te, soprattutto, dottor Socrates, capace, con un colpo di tacco, di disorientare il difensore o il colonnello. Sorridesti quando ti rammentai il tuo arrivo in Italia: i cronisti ti chiesero il nome del più grande tra Gianni Rivera e Sandrino Mazzola e tu, alto, dinoccolato, la barba incolta, rispondesti: «Il più grande è stato Antonio Gramsci ». Quanto mi manchi, Dottore: la tua cultura, la tua ironia, quel tuo vedere nel calcio una palestra di vita, di libertà e di politica. E San Paolo mi riporta Gilmar, il portiere campione mondiale nel ’58 e nel ’62. Era il 1983, pioveva quel mattino, quella pioggia insistente e sottile, quasi trasparente. Dovevamo incontrarci nella tua autoconcessionaria, per rivivere, in una lunga intervista per il mio giornale, le stagioni della tua gloria; tu, il più elegante e bravo estremo difensore brasiliano di tutti i tempi. Ma dentro di me, ridevo... Accadde che mia madre, quando facevo le scuole medie, ed eravamo in Italia da sei anni, mi svelò una bellissima storia romantica: «Ma lo sai che tua cugina aveva come fidanzato Gilmar, il famoso portiere? Poi, si sono lasciati...». Gilmar: non potevo crederci! In quegli Anni Sessanta era popolare come Gigi Buffon. La mia immaginazione agì. Ai miei compagni di classe narravo le mie prodigiose avventure con quel mio mitico cugino: «Gilmar veniva a prendere il caffè a casa mia», «Gilmar giocava a calcio con me, e gli facevo spesso gol», fino alla storia più inverosimile e salgariana: «Mio cugino mi portava all’allenamento del Santos e io palleggiavo con...».
I miei compagni, in quel preciso istante, strabuzzavamo gli occhi, restavano con la bocca spalancata, tutti, a quell’epoca, conoscevano il Santos e, soprattutto, il suo fuoriclasse con la maglia numero 10. «Noooooo!!!», mormoravano stupiti, increduli, invidiosi i miei compagni, «Lui, proprio lui?». E io, tronfio: «Sì, lui... Pelé!». Prima di tornare in Brasile e a San Paolo, dopo ventuno anni di assenza, chiesi a mia mamma quante volte, più o meno, Gilmar venne a casa nostra. E lei: «Mai. E non lo abbiamo mai visto di persona. I due innamorati si incontravano a Rio de Janeiro». Crollò una leggenda e crollarono le mie menzogne. Incontrai, così, Gilmar per la prima volta in quel mattino di pioggia sottile. Lo abbracciai, pensando: «Ciao, cugino caro. Grazie per i sogni».