La vita. San Francesco d'Assisi, un ribelle contro la modernità
Particolare dalla "Predica degli uccelli" di Giotto nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi
«Da giovane Francesco sognò di diventare cavaliere». Leggo questa frase che apre l’ultimissima biografia di Francesco d’Assisi, il nuovo libro di Enzo Fortunato, Francesco, il ribelle (Mondadori). Conosco da tempo padre Enzo Fortunato: frate conventuale e direttore della sala stampa del Sacro Convento di Assisi, docente dell’Antonianum di Roma, autore di libri di successo, giornalista pluripremiato.
Non gli ho mai chiesto quanti anni abbia: ma sono certo che conserverà a lungo quell’aria da eterno ragazzo che non cessa di stupirsi del mondo che lo circonda. Eppure è un uomo abile: e, con quel suo trattar umilmente e familiarmente tanto i grandi della terra che passano da Assisi quanto le semplici pellegrine umbre, dà spesso l’impressione di un “giovane in carriera” che sotto il suo sempre impeccabile saio nero nasconda l’inquietudine e l’impazienza di chi è capace di grandi progetti. Attivo, inappuntabile, onnipresente: uno che, tra l’altro, “buca il video”: come si dice in gergo televisivo. Ma a volte lo guardi mentre sta assorto in silenzio o mentre scherza con qualcuno e ti chiedi: e se fosse, molto semplicemente, un frate?
Questo suo Francesco ribelle è un libro ben più dotto di quanto non voglia dar ad intendere: e vanta padrini nobili ed autorevoli, da Chiara Frugoni a Felice Accrocca a Grado G. Merlo. Il titolo può sembrar ammiccante: che strizzi l’occhio a un certo libertarismo diffuso e in fondo banale, alle facili e “popolari” interpretazioni di un Povero d’Assisi che fu tale in quanto rifiutò le convenzioni e le ipocrisie “del suo tempo”, l’autoritarismo della gerarchia, il tronfio orgoglio dei ricchi e dei potenti, la violenza delle “crociate”; e magari fu per giunta un animalista, magari un femminista eccetera eccetera? Macché: nulla di tutto questo. Che Francesco da giovane volesse fare il cavaliere aveva colpito anche me anni fa, quando mi accingevo a scrivere quella che fu poi una sua, a mio avviso maldestra, biografia.
Giovanni Miccoli provò a dissuadermi: non gli sembrava che quel sogno giovanile fosse poi così importante. Oggi, lo studio di Barbara Frale su Francesco che va alla guerra mi ha invece confermato di nuovo che in quella mia vecchia intuizione c’era qualcosa di buono. Ed Enzo Fortunato parte proprio di lì per riprendere un’affermazione di Albert Camus ch’egli stesso ha posto a sigillo del suo scritto: «Cos’è un ribelle? Un uomo che dice no!».
Ha l’aria di non curarsi della critica e dell’esegesi, padre Enzo. Negli ultimi tempi la lettura del primo biografo di Francesco, cioè di Tommaso da Celano, è stata rivoluzionata da una scoperta di Jacques Dalarun; testi come la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio e, soprattutto, i Fioretti un tempo troppo amati - e citati - sono stati oggetto di critica severa; Chiara Mercuri ha scritto una bella monografia ( Francesco. La storia negata) che riprende in esame, e riconsidera, la testimonianza dei primi compagni di Francesco, i socii, già oggetto di un celebre studio di Raoul Manselli.
Enzo Fortunato sembra scivolare con serena nonchalance su questa selva di problemi storici e filologici così irta di aculei: e fornirci di nuovo del suo biografato un profilo semplice, levigato, lineare, come quello dell’immagine giottesca scelta per la copertina, la rinunzia ai beni e all’eredità paterna dipinta sulla scorta del testo bonaventuriano nella basilica superiore. Ma proprio qui sta il punto: che verrà ripreso, nelle pagine successive, trattando degli altri episodi-chiave ben noti quali il rapporto con i lebbrosi, la predica agli uccelli, l’incontro con il sultano, il presepio di Greccio, la morte; e riprendendo quindi i due testi-chiave fra i suoi scritti, il Cantico delle Creature e il Testamentum.
Francesco ribelle: sia pure. Ma ribelle a chi? Ascoltiamo le parole dell’autore, che qui mette da parte il tono piano e tranquillizzante della narrazione e si fa duro, perentorio: «Sia chiaro, il figlio di Bernardone è un ribelle contro il suo tempo che va volgendo verso la vittoria dell’individualismo e della “società dell’avere”, non contro la Chiesa e nemmeno la gerarchia». Proprio così: e, verrebbe voglia di commentare, papale papale, in tutti i possibili sensi di questa espressione. In due righe di numero ecco il senso paradossale e sconvolgente di una testimonianza. E non a caso, chiamando in causa la «società dell’avere», si cita implicitamente un saggio di Erich Fromm che tanto piaceva a papa Giovanni Paolo II.
Perché questo santo che sembra andare bene a tutti, quest’uomo “per tutte le stagioni” che piaceva tanto a Gandhi quanto a Mussolini, ribellandosi contro il prepotere dell’individualismo e del danaro si è proposto come un ribelle ante litteram alla Modernità occidentale; e che piaccia tanto agli occidentali moderni, alla società dell’avere, del consumare e dell’apparire, è il paradosso dei paradossi.
E il cerchio si chiude. Il libro apertosi sui giovanili sogni di gloria cavalleresca d’un ragazzo figlio di mercante si conclude nella sostanza con una citazione in apparenza marginale di un romanzo cavalleresco del XII secolo, il Cligés di Chrétien de Troyes, «tutti gli altri mali sono amari, fuorché quello solo che procede dall’amore». L’amore, che rende dolce quel che prima sembrava amarissimo. L’amore di Dio che, come Francesco afferma nel Testamentum, egli scoprì stando fra i lebbrosi e facendosi povero per servire i poveri.