Intervista. Elio Germano: un San Francesco giovane favoloso
«Essere liberi senza possedere nulla, tendere la mano a ciò che Dio ci dà, e ci dà cosi tanto». San Francesco, spettinato, dal volto sporco e ribelle, sorride mentre un uccellino gli si posa sulla grezza stoffa del saio. Così si apre il trailer de Il sogno di Francesco, il nuovo film sul Poverello in uscita nelle sale il 6 ottobre prodotto da Aeternam Films e distribuito da Parthénos, interpretato da Elio Germano.
L’attore 35enne, il piu richiesto della sua generazione, aggiunge un altro “giovane favoloso”, dopo essere stato Giacomo Leopardi per Mario Martone, alla sua numerosa carrellata di personaggi (35 i film girati, tre David di Donatello, migliore attore protagonista a Cannes). Merito di una produzione francese (titolo originale L’ami-Francesco et ses frères), per la regia di Renaud Fely e Arnaud Louvet, con Jérémie Renier nei panni di frate Elia e Alba Rohrwacher in quelli di santa Chiara. «Il film si concentra su un Francesco maturo, anni dopo la sua conversione – aveva già anticipato Germano ad “Avvenire” nell’aprile scorso –. Un percorso affascinante per l’attualità del pensiero francescano e per come la Chiesa reagì a una simile rivoluzione spirituale e del pensiero.
La storia di Francesco diventa addirittura una metafora per leggere molti dei fatti e delle crisi del nostro tempo». Tra queste, in prima fila c’è la povertà, come ripete oggi papa Francesco, un concetto ribadito anche nel film: «Vivere tra i piu poveri è obbedire alla nostra coscienza». Un tema che sta a cuore anche a Germano, storico attivista ora impegnato sul fronte dei diritti dei rifugiati. Lo abbiamo incontrato, infatti, alla Mostra del cinema di Venezia alle Giornate degli Autori per promuovere con passione un piccolo grande progetto in cui è il narratore, ovvero No Borders, il primo documentario in realtà virtuale, girato da Haider Rashid, regista fiorentino di origine irachena, sul tema dei migranti. Talmente coinvolgente, toccante e reale da vincere al Lido il premio MigrArti.
Il sogno di Francesco di una società fraterna fatta di pace e uguaglianza sembra collegare questi due progetti. Di cosa parla il film sul Poverello? «Il film, girato nel sud della Francia e a Gubbio, inizia nel 1209, dopo il rifiuto opposto da Innocenzo III di approvare la prima versione della Regola. E si concentra molto sul rapporto dialettico con l’amico fraterno Elia da Cortona. Per ottenere il riconoscimento dell’ordine, Elia, che sta conducendo le difficili trattative col papato, cerca di convincere Francesco ad abbandonare la sua intransigenza e redigere una nuova regola. Il confronto tra gli ideali e i compromessi necessari, metterà alla prova la loro amicizia».
Come sarà il suo san Francesco? «L’ho interpetato cercando la via dell’umanità. Per dargli verità ho cercato di sporcarlo, colorarlo, farlo vivere con una interpretazione carnale. Come faccio con tutti i miei personaggi. Solo che mi sono dovuto doppiare in italiano, esperienza terribile per me che non ho mai fatto doppiaggio..».
Prima Leopardi, poi san Francesco, in mezzo tanti ritratti di italiani comuni. Lei sente di poter rappresentare il volto del nostro Paese, come feceroVolonté, Sordi, Mastroianni? «Quegli attori per me sono mitologia, ma quello era un cinema di un’altra dimensione. Il pubblico allora cercava domande, oggi vuole solo staccare la spina».
È per questo che lei si presta anche a progetti sperimentali impegnati come No Borders? «Questo è un progetto cui tengo molto. Il mestiere d’attore è fatto di tante cose, arte, compromessi, rapporti, paghe. Ma se Dio vuole in ognuno di noi c’è una sorta di bipolarismo, che ci fa mettere a disposizione degli altri il nostro bagaglio di competenze».
Pensa che le nuove tecnologie possano non solo essere intrattenimento ma aiutare a veicolare contenuti importanti? «Certo, siamo in una fase di rivoluzione epocale. La prima volta che ho indossato una maschera col visore che mi proiettava in un viaggio interstellare, mi sono spaventato e l’ho tolta subito. A impressionare è la sparizione dell’individuo, totalmente immerso in un’altra realtà. Credo che sia lo stesso effetto che ebbero i primi spettatori davanti al treno dei fratelli Lumière. Ma dentro questa cosa preoccupante, si possono creare elementi per riportarla al reale».
Come in No Borders, dove ci si ritrova fianco a fianco con i migranti come se si fosse dei loro compagni di viaggio... «Appunto, in questo documentario ci si ritrova accampati sugli scogli di Ventimiglia e, volgendo lo sguardo a destra e a sinistra, si vede ciò che sta intorno, gli attivisti No Borders da una parte e i poliziotti che li sgomberano dall’altra. O ci si ritrova in prima persona a servire alla mensa del Centro autogestito Baobab di Roma, sgomberato nel 2015, o sdraiati sotto un ponte con altri migranti che non hanno nulla. Tutto questo può rivoluzionare il modo di fare reportage, uscendo dall’appiattimento giornalistico, che riduce una tragedia a un fotogramma. La realtà virtuale ti porta a guardarti intorno e vedere oltre».
Come si e avvicinato al tema dei migranti? «Mio nonno, contadino in un paesino del Molise, quando si trasferì a Roma negli anni 50 in cerca di lavoro venne arrestato perchè non aveva il permesso di risiedere in città. Un trauma che ha segnato la famiglia. Ecco, lo stesso dramma personale oggi lo trasmettono ai loro figli tanti uomini che fuggono dalle guerre e che lo Stato italiano tratta come fuorilegge. Ma l’approccio dovrebbe ripartire dall’umanità».
Come fanno i volontari nel vostro documentario, dove si vedono fianco a fianco scout cattolici e no global al servizio dei migranti. «Il volontariato e l’associazionismo stanno tenendo a galla questo Paese. Il ruolo della politica dovrebbe essere quello dell’ascolto. Scoprirebbe che tanti cittadini escono dall’individualismo e ritrovano umanità. Al posto di spingerci sempre l’uno contro l’altro, in una competizione sfrenata, dovremmo recuperare, e lo dico da molisano, quell’umanità che arriva dalla cultura contadina. Perché si è molto più felici nel donare che nel farci la guerra gli uni contro gli altri».
Un consiglio invece, per i giovani che volessero seguire le sue orme? «Io sono contrario all’aspirazione. Ai ragazzi direi di smettere di restare schiacciati in un’unica direzione di arrivo, per non rischiare l’infelicità. Lasciate aperte le vostre prospettive, non cercate il successo a tutti i costi specchiandovi in una foto a cui assomigliare. Il mio percorso è stato casuale, a 14 anni frequentavo la scuola di recitazione del Teatro dei Cocci. Per me era un gioco, un doposcuola, non l’ho caricato di aspirazioni ecessive. Mente frequentavo la facoltà di Filosofia, mi sono accorto che recitando mi potevo mantenere e siccome avevo l’incubo di un mestiere ripetitivo, ho intrapreso questa strada, con naturalezza. La cosa più bella del mio mestiere è che un giorno puoi essere un idraulico, il giorno dopo uno del Quattrocento o un delinquente. Oppure san Francesco...».