Agorà

Storie di cuoio. L'ultimo Mondiale di Saldanha e Soriano

Massimiliano Castellani venerdì 26 giugno 2020

João Saldanha

Notte del 4 luglio 1990. Nel silenzio della corsia del Policlinico di Roma si ode solamente il ticchettio di una macchina da scrivere che il paziente brasiliano João Saldanha, ricoverato per una polmonite, ha cortesemente richiesto. «Germania-Inghilterra vinta dai tedeschi ai calci di rigore, è stata senza dubbio la partita più bella di questi Mondiali italiani. Quanto alla Selecão, che dire? L’Argentina di Maradona l’ha sbattuta fuori ai quarti grazie alla “stupidità siderurgica” del ct Lazaroni...». Saldanha fece appena in tempo a finire il commento da spedire all’emittente “Rede Manchete” che cadde in coma. Ma prima di quell’ultimo “sonno romano” ci piace pensare che il visionario di Rio abbia incrociato lo scriba argentino di Fùtbol Osvaldo Soriano, inviato per gli stadi d’Italia per conto del “Manifesto”. Quello è stato l’ultimo Mondiale vissuto dalla tribuna stampa da due grandi sognatori, principi assoluti nella rara tribù dei ribelli e fuggitivi. Nella storia affascinante e complessa – politica e calcistica – di João Alves Jobim Saldanha, c’è dentro tutto il Brasile. Così come nella narrativa di quell’impavido e discreto bracconiere di storie che è stato Osvaldo Soriano si ritrova un pezzo fondante dell’Argentina, di ieri e di oggi. Due uomini ai quali i regimi dei rispettivi Paesi fecero di tutto per cancellare i loro nomi e ridurli all’ombra funerea dell’oblio. Ma entrambi, grazie alla dissidenza, hanno sapientemente evitato di finire in fuori gioco, nel campo senza linee di fondo della Storia. La fuga di Saldanha inizia a 14 anni (nel 1931) quando da Rio Grande del Sud, dove leggenda vuole che a sei anni fosse già contrabbandiere di armi, arriva a Rio de Janeiro per entrare nel collegio sportivo del Botafogo. Studio e Futebol perché il calcio per lui era «puro divertimento e poi possibilità di emancipazione nella società, specie per chi vive al margine». È il primo calciatore professionista brasiliano iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, apprendista notaio a vent’anni, quando, tra una partita e l’altra (anche di basket, suo secondo sport) sale sulle barricate della protesta studentesca e viene proclamato leader maximo dei giovani comunisti.

È in prima linea nella Grande Marcia di Mao e in Messico si incontra con Pablo Neruda. Come Soriano, predica e scrive, con linguaggio mai letto prima, “calcio di poesia”, insegnando anche al povo delle favelas che «zona della cicoria» è la delicatissima area di rigore e che «ogni n.10 che si rispetti deve avere chiaro in mente la “mapa da mina” (la mappa della miniera) per indicare ai compagni dove trovare il tesoro». Quella mappa in Argentina l’ha posseduta e tenuta stretta ai piedi finché è sceso in campo Diego Armando Maradona. Era 18enne Maradona, quando il 7 maggio 1979 Soriano dall’esilio di Parigi (scappato dai carnefici di Videla) scriveva al suo “fratello italiano” Giovanni Arpino: «Secondo i giornalisti e i miei amici stessi, Maradona è il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni. Fa due gol a partita (la sua è una squadra misera ma sono primi) e fa già parte della selezione nazionale. Certo, tutti i grandi, e il Barcellona, lo vogliono comprare: costa, credo cinque milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Dicono che paragonato a lui Sivori è un energumeno. Poi non dite che non vi avevo avvertito». Consiglio ascoltato dal Napoli con quasi un decennio di ritardo. Così come slittò a dopo il Mundial dell’86 (ultimo trionfo dell’Argentina) l’appuntamento tra lo scrittore e “El Pibe de oro”. La sua ammirazione per Maradona entrò anche nelle pagine diRibelli, sognatori e fuggitivi quando a don Salvatore, il pianista del teatro di Colòn, fa dire: «Com’era possibile che avendo un giocatore simile, l’Argentina non fosse riuscita a pagare l’immenso debito con il Fondo monetario internazionale».

Soriano coronò il sogno di incontrare personalmente “El Diego” proprio quel luglio di trent’anni fa, a Roma. In un «pomeriggio assolato», assieme all’amico Gianni Minà, andò a Trigoria nel ritiro dell’Argentina e quel giorno “El Gordo” tornò bambino. La sua timidezza che aveva affascinato anche la redazione del “Manifesto”, in cui entrò in punta di piedi per proporre i suoi pezzi di letteratura ad uso e consumo del quotidiano politico più in linea con il suo Pensare con i piedi, si sciolse davanti al giocoliere della Seleccion che incantò lui e Minà palleggiando, per minuti che sapevano di eternità, con un’arancia. «Secondo voi l’ho toccata anche con il braccio?», chiese “El Diego”, e i due ingenuamente risposero in coro: «No». Maradona divertito, con quel proverbiale sorriso da simpatica canaglia li smentì: «E invece sì! Come avrebbe potuto allora accorgersene quel povero arbitro tunisino di Argentina-Inghilterra nell’86 quando segnai il primo gol aiutandomi con la mano... la mano di Dio?». Soriano stregato, restò a cena e tirò fino a mezzanotte con “El Diego” parlando di vita, di tango, di letteratura e d’Argentina, e rincasando confessò a Minà: «Gianni, poche volte mi sono sentito così allegro in vita mia». Saldanha aveva conosciuto l’«alegria do povo» (allegria del popolo) nei dribbling disarmanti di Garrincha e al popolo aveva spiegato quella magia sulle pagine della Folha do Povo. Prima di un’altra stella della letteratura sudamericana come Eduardo Galeano, tutte le miserie e gli splendori del calcio li aveva raccontati nel suo libro Subterraneos do futebol, in cui aveva giocato a fare il Jorge Amado del sublime I sotterranei della libertà. NeiQuartieri d’inverno dell’esule, provando a buttare giù Racconti degli anni felici Soriano ingollava mate e nostalgia in una Parigi in cui triste e solitario immaginava che «Carlitos Gardel, sono più che convinto che qualche volta debba essersi incrociato con Hemingway, André Breton e Picasso. Forse a La Couple di Montparnasse o nei caffè della Place de Clichy. O forse nel Ritz dove andava a chiedere soldi a Madame Wakerfield, la grassona che finanziava i suoi film». Saldanha nel giugno del ’44 affittò una «soffitta a Montmartre » e si manteneva lavorando da reporter, andando alle radici della banalità del male. Di stanza a Parigi, viaggiò e scrisse reportage sui campi di concentramento nazisti di Dachau, Auschwitz e Treblinka, superò la cortina di ferro e avanzò fino a Kiev e Stalingrado.

Ribelle e sovversivo “João sem paura” ( Joao senza paura) che nel 47’ aveva già le manette ai polsi – accusa di sovversione conclamata, del resto era un figlio del ’17 –, ma il Botafogo lo salvò offrendogli un posto da direttore tecnico. Però, un filosofo purista non può vivere e osservare il “calcio marcio” da dietro una scrivania e neppure inebriandosi con l’odore dell’erba stando a bordo campo, in panchina. Perciò non esitò a premere il grilletto contro il portiere del Botafogo che si era venduto la partita e in un Brasile governato dai “colletti bianchi” e non meno razzista dei gringos americani sparò sentenze degne di Malcolm X: «Nel calcio i migliori hanno la pelle nera. Sono più veloci, più abili e hanno maggiore fantasia. Di Stefano e Puskas sono stati calciatori favolosi, ma nessuno di loro possiede la classe e l’imprevedibilità di Pelè e di Garrincha». Saldanha da hombre vertical quale era ebbe anche il coraggio di spedire Pelè in panchina. E questa non è leggenda, come il suo presunto «sbarco in Normandia», ma la più originale delle storie mai lette con protagonista un “Gianni Brera di Rio” che all’improvviso si ritrova a capo della Seleçao. Nella sua rocambolesca esistenza è accaduto anche questo. L’altro João, il presidente della Federcalcio (Cbf) Havelange, dopo il flop dei Mondiali del ’66 decise di fare tabula rasa e un pomeriggio dell’incendiario ’68 convocò una conferenza stampa in cui, a sorpresa, consegnava le chiavi della nazionale verdeoro al più rivoluzionario dei brasiliani. Saldanha accorse all’appuntamento da prima penna di Folha per ritrovarsi in cattedra e diramare con due anni di anticipo sul Mundial di Messico ’70 «gli undici titolari» e le altrettante «irremovibili riserve». Cose mai viste. Così come il regime del generale Emílio Garrastazu Médici non aveva mai udito un simile fragoroso «No! Dario non lo convocherò mai», come quello del ct Saldanha, riferito al raccomandato di ferro della dittatura. «Quattro uomini sulla stessa linea vanno bene solo per le parate militari. Il Generale scelga i suoi ministri e lasci stare le cose serie come il calcio. Chi gioca nella Seleçao lo decido io», ribadiva il concetto, in diretta tv “João sem paura”, alla vigilia del Mondiale del ’70. Affondo che gli valse il licenziamento immediato, così che donò all’ex allievo Zagalo il Brasile più forte di tutti i tempi.

L’uomo che dalla prima Coppa Rimet poteva vantare il record assoluto, «ho assistito a tutte le edizioni dei Mondiali», si presentò lo stesso alla finale di Città del Messico da commentatore televisivo annunciando al suo popolo: «Abbiamo assistito alla vittoria (Brasile- Italia 4-1) della massima espressione dell’arte calcistica». Anche Soriano aveva visto nell’arte di Maradona la possibilità di un bis iridato dell’Argentina. Quattro anni dopo il Messico, la Germania appena unificata dopo il crollo del Muro sfidava nuovamente “El Pibe” che nell’86 «aveva vinto il Mundial praticamente da solo». Nella notte del San Paolo l’Argentina aveva beffato l’Italia e al tassista napoletano che lo riportava in albergo Soriano per la prima volta rinnegò la sua patria: «Sono un giornalista uruguayano». Aveva origini uruguayane (era nato a Montevideo) l’arbitro messicano Méndez che con un rigore scandaloso – rinnegato trent’anni dopo persino da Matthäus – condannò l’Argentina nella finale di Roma vinta dalla Germania. Soriano per esorcizzare l’«ingiustizia universale» quella notte rimise mano aIl rigore più lungo del mondo. Osvaldo sconsolato lasciò Roma il giorno in cui Saldanha si spense al Policlinico, il 12 luglio 1990. In attesa di un volo che lo riportava a Buenos Aires qualcuno gli raccontò di quella volta che alla Bbc a Saldanha chiesero cosa ne pensasse della corruzione dilagante in Brasile: «Se voi inglesi siete più onesti, spiegatemi a cosa dobbiamo la fama internazionale di Scotland Yard?», rispose João. Soriano ritrovò il sorriso e volò tra le nuvole, inconsapevole che quello, anche per lui, era stato il suo ultimo Mondiale.