Lo psicanalista. Massimo Recalcati: «Oltre la logica del sacrificio»
Caravaggio: “Il Sacrificio di Isacco” (1603) conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze
Fino a un certo momento, il percorso umano e intellettuale di Massimo Recalcati è stato quello tipico della sua generazione: educazione cattolica, poi l’incontro con il pensiero di Marx e di Nietzsche, infine la pratica della psicoanalisi che segna ancora di più le distanze dalla tradizione cristiana. «Quello che non avevo previsto – dice – è che fosse proprio la psicoanalisi a farmi riscoprire il Vangelo ». È successo qualche anno fa, all’epoca della pubblicazione di Cosa resta del padre? (Cortina, 2011), un saggio che segna un punto di svolta nella produzione di Recalcati e al quale si sono successivamente affiancati titoli come Non è più come prima (2014), sul tema del tradimento e del perdono, e Il segreto del figlio (Feltrinelli, 2017), nel quale la parabola evangelica del “figlio ritrovato” diventa l’occasione per uscire dalle strettoie del complesso di Edipo. «Sto cercando di portare alla luce le radici bibliche della psicoanalisi – spiega Recalcati –, solitamente poco avvertite dagli stessi psicoanalisti». Si inserisce in questa traiettoria Contro il sacrificio (Cortina, pagine 148, euro 13,00), il saggio nel quale Recalcati approfondisce ulteriormente il rapporto fra psicoanalisi e cristianesimo. «In comune – sintetizza – hanno l’obiettivo di sacrificare il sacrificio».
Sì, ma il cristianesimo non può fare a meno della croce.
«La croce è per l’appunto il luogo in cui il sacrificio viene superato una volta per tutte. Non tanto nella prospettiva del “capro espiatorio” studiata da René Girard, ma in quella della Legge il cui compimento è annunciato e realizzato da Gesù. Il problema, semmai, è che del cristianesimo ha finito per diffondersi tutt’altra visione, incentrata proprio sulla necessità e sulla conseguente esaltazione del sacrificio: un’interpretazione colpevolizzante, che non riesce a riconoscere come nella croce venga messo a morte il sacrificio stesso».
Così non si rischia di separare il cristianesimo dalla sua storia?
«No, perché questa lettura della croce come liberazione e non come condanna appartiene a una linea di pensiero teologico che da Agostino arriva fino al Novecento, passando per Tommaso d’Aquino e Kierkegaard. Una sensibilità alla quale mi sento molto vicino e alla quale la psicoanalisi dovrebbe guardare con maggior attenzione, facendo tesoro della rielaborazione della lezione di Freud operata da Jacques Lacan».
Questo significa che il sacrificio perde ogni valore?
«La questione è un’altra e riguarda l’ambiguità fra donazione e sacrificio, a proposito della quale possono tornare utili le osservazioni di Nietzsche sulle patologie caratteristiche del cosiddetto “uomo religioso”. Lo dico con chiarezza: non condivido l’interpretazione che Nietzsche propone del cristianesimo, ma nella sua analisi ci sono elementi ancora oggi validissimi. Il sacrificio, in particolare, rientra ancora nella logica del baratto, in un contesto di economia truccata per cui la sofferenza attuale sarebbe il pegno di un risarcimento futuro. Ma una simile aspettativa svuota l’atto stesso di qualsiasi significato, perché lo sottomette a un meccanismo retributivo. La donazione, al contrario, si sottrae a questa logica, perché è l’atto che trova in sé la sua ragion d’essere, in una dimensione di dedizione assoluta a modello della quale lo stesso Nietzsche pone il rapporto tra la madre e il figlio. Ed è esattamente questo che accade sulla croce, dopo essere stato prefigurato nel sacrificio di Isacco».
Può essere più preciso?
«C’è motivo se questo episodio dell’Antico Testamento ha tanto appassionato pensatori come Kierkegaard e Derrida, ed è la sua natura di sacrificio sospeso. La mano di Abramo non sferra il colpo, perché qui la vera vittima non è Isacco, ma il dispositivo del sacrificio. In questo modo il figlio si pone come l’“insacrificabile”, per usare un’espressione cara a Jean-Luc Nancy. Ecco, il fatto che l’uomo, nella sua singolarità, sia sottratto per sempre al sacrificio rappresenta, secondo me, la più importante acquisizione politica del cristianesimo ».
Perché politica?
«Perché la mistica del sacrificio sta alla base di tutte le ideologie totalitarie, dal nazismo allo stalinismo, fino ai fondamentalismi nostri contemporanei. Nel momento in cui ci rendiamo conto che in questa accezione lo “spirito di sacrificio” è estraneo al cristianesimo, diventa impossibile cancellare l’uomo in nome di un presunto ideale. Più in profondità, il fatto di riconoscere in ogni uomo il volto di Dio ci permette di stabilire relazioni reciproche libere e feconde, che si fondano sulla consapevolezza del carattere insacrificabile della singolarità di ciascuno».
Come interviene la psicoanalisi in questo processo?
«La psicoanalisi non è un’alternativa al cristianesimo, né tanto meno si pone in conflitto rispetto al cammino di liberazione di cui il Vangelo dà testimonianza. Pensiamo a quello che Lacan afferma a proposito del Padre, sottolineando come il suo compito consista nell’“unire e non opporre il desiderio alla Legge”. Espresso in un altro linguaggio, è ancora il tema evangelico del compimento della Legge a imporsi, in una dimensione di donazione e non di sacrificio. “Unire e non opporre”, del resto, mi sembra un mandato particolarmente urgente in questo nostro tempo. Anche per quanto riguarda i rapporti fra cristianesimo e psicoanalisi vale l’invito di papa Francesco a costruire ponti anziché muri».
Quali pagine del Vangelo la colpiscono di più?
«Oltre a quella del figlio ritrovato, mi ha sempre incuriosito la parabola degli operai della decima ora. Mi ricordo come, da bambino, mi venisse spontaneo solidarizzare con le rivendicazioni sindacali, se così vogliamo definirle, dei lavoratori che si erano sacrificati sotto il sole fin dal mattino. Ma in realtà non è questo che interessa al padrone. A lui sta a cuore che ciascun operaio abbia risposto alla chiamata: che abbia agito in conformità al desiderio che lo abita, per ripetere una celebre espressione di Lacan. Dove “desiderio”, com’è evidente, non è affatto sinonimo di pulsione irrefrenabile, ma rimanda alla sfera della chiamata e del compimento. Della vocazione, insomma. Gesù lo dichiara con forza attraverso un’altra parabola, quella dei talenti. Nascondere sottoterra la moneta ricevuta equivale a non agire in conformità al desiderio autentico che ci abita».