Calcio. Walter Sabatini: «Al calcio serve l'umanesimo»
Walter Sabatini
E’ il più romantico e imperscrutabile dei direttori sportivi: Walter Sabatini, 69 anni, umbro di nascita, di Marsciano, cittadina che ha dato i natali anche a Giancarlo Antognoni, ma da sempre,, da quando giocava da centrocampista, è rimasto un apolide del calcio. In questa calda estate, riflette serafico alla Denis De Rougemont, l’autore di Diario di un intellettuale disoccupato: guarda il mare di Sperlonga, assieme a sua moglie Fabiola e al figlio Santiago, e aspetta l’onda per riprendere a navigare nel mare sempre in tempesta del pallone italico. Fondali, spesso impervi, che ha scandagliato, da Nord a Sud, e che ha descritto con una narrativa sorprendente, alla Soriano, nella sua autobiografia Il mio calcio furioso e solitario (Piemme). Memoir che è il risultato di una filosofia di vita in cui, molto prima di Mourinho, il giovane Walter, già ai tempi del Perugia, alla metà degli anni ’70, assieme al compagno di lotte e di letture Paolo Sollier, aveva compreso che «chi sa soltanto di calcio non sa niente del calcio» e che ogni giorno, da allora, per lui non c’è miglior «risveglio, senza il conforto di una coperta di libri». L’uomo di calcio ha appena salutato per la seconda volta il popolo di Salerno e la Salernitana retrocessa in B. Una sconfitta che ha incassato con la consapevolezza della sua vera forza: «Non aver mai ceduto al nichilismo, eccetto che verso il mio corpo, che ho trasformato in campo di battaglia».
Il corpo del tabagista indefesso, stile Gianni Mura, che anche contro la malattia ha lottato a testa alta.
«Per un mese sono stato in coma farmacologico, ho vissuto da dirimpettaio della morte. Poi ho attraversato il Rubicone e l’ho scampata. Ma non dimentico il terrore provato... La dottoressa dell’ambulanza che mi trasportava in ospedale sentivo che diceva “non ce la fa, non ce la fa!”. Non vedevo il suo volto, ma sentivo quella frase che suonava come una condanna senza appello.. Cercavo di prenderla a calci, poi mi sono aggrappato alla giacca del dottor Del Vescovo (attuale medico dell’Atalanta) e gli ho domandato disperato: dottore, è la verità? Lui mi ha risposto sorridendo: “No direttore, non muore adesso. Magari domani”. Ora possono anche riderci su, ma quelli sono stati attimi terribili.
In quei giorni drammatici in piena lotta per la sua salvezza si è mai aggrappato alla fede?
«Non sono mai stato un grande praticante, ma ho le mie preghiere da cristiano. Quando vedi in faccia la sofferenza tua, delle persone che ti amano e anche quella dei vicini di letto in una stanza di ospedale, beh cominci a farti delle domande. Ho imparato a pregare, soprattutto per gli altri e non ho più smesso».
Nella sua autobiografia racconta di non aver mai cancellato dalla memoria il 30 ottobre 1977: la domenica in cui durante Perugia-Juventus Renato Curi morì in campo per arresto cardiaco.
«Ho visto morire Renato davanti ai miei occhi, la sua faccia riversa in una pozzanghera.... Non passa giorno che non ripenso a quella scena. Avverto ancora il vuoto per la perdita di un amico vero, un ragazzo di appena 24 anni. La stessa cosa mi accade con Sinisa Mihajlovic, un uomo con cui al Bologna avevo costruito un rapporto umano intenso e profondo che andava ben al di là di quello professionale tra direttore sportivo e allenatore. Mi manca molto Sinisa…».
Un altro rapporto speciale è quello che nel tempo ha stabilito con Luciano Spalletti, prima alla Roma e poi all’Inter. Sono giorni difficili per il ct azzurro dopo l’eliminazione dagli Europei….
«Per Luciano ho una stima incommensurabile. Come persona è un plasmatore di umanità, come tecnico ha la capacità rara di prendere 11 pezzi di legno e di farne una scacchiera di pregio. Agli Europei questo non gli è riuscito, ed era prevedibile, perché il materiale a disposizione non era sufficiente. Comunque fa bene a restare al suo posto. Luciano non va in cerca di gloria personale, non ne ha bisogno perché la sua è una carriera da vincente, e adesso vuole vincere con la Nazionale solo per far felice la gente. Diamogli tempo e torneremo ad essere felici anche noi».
Va bene, fiducia al ct, ma qui il problema pare sia la preoccupante carenza di giovani all’interno del nostro movimento.
«Non è un problema di giovani o vecchi, l’unica distinzione da fare è quella tra calciatori forti o non adeguati, quindi scarsi. Il problema poi diventa culturale: il talento latino mediterraneo si è estinto e neanche misteriosamente. E’ andato disperso per colpa del 4-4-2 e della zona ossessiva di Arrigo Sacchi che di fatto ha espulso per sempre il n. “10”, il fantasista. E noi storicamente siamo stati una terra di numeri 10. Vero che neanche gli altri ce l’hanno più il “10” classico, però Carlo Ancelotti al Real Madrid sopperisce all’assenza con giovani campioni come Rodrigo, Vinicius e Bellingham che hanno riportato la fantasia al potere».
L’ultimo n.10 del calcio italiano è stato Francesco Totti, lei è stato testimone dello scontro finale con Spalletti.
«Un rapporto rovinato dagli eccessi di una città come Roma che esagera in tutto, anche nel manifestare la passione per la propria squadra. Di un normale confronto allenatore-giocatore ne hanno fatta una guerra punica. Francesco era nervoso perché ormai era a fine carriera, Luciano difendeva le sue idee tecniche. Ma da uomini veri e sensibili quali sono si sono ritrovati e abbracciati in un luogo non casuale come l’ospedale pediatrico del Bambin Gesù».
La sua carriera da ds è iniziata esattamente 30 anni fa alla Triestina e il suo primo colpo di mercato è stato il “bomber pasionario” Riccardo Zampagna.
«Un ternano doc che presi dalla Pontevecchio, club alle porte di Perugia, quella è stata anche la squadra di Serse Cosmi. A Trieste il mister Pippo Marchioro lo chiamava “Zampogna”. Grosso, un po’ sgraziato, Pippo pensava gli avessi rifilato un brocco. Invece dopo cinque giorni l’ha buttato in campo, a Novara, e “Zampogna” fece subito gol. Da quel momento è partita la scalata straordinaria fino alla Serie A del “bomber Zampagna”».
A Perugia dove ha cominciato da dirigente alla sua scuola calcio dedicata all’ex grifone Enzo Scaini (un’altra “morte bianca” del calcio, come quella di Curi) poi è tornato da ds per volere del patron Luciano Gaucci.
«Mi ha licenziato dieci volte e gli rendo merito per avermi riassunto altre dieci volte. Vulcanico, Luciano Gaucci incarnava quel calcio più umano che oggi è stato azzerato dai fondi internazionali. Nella pletora dei manager di questi fondi non c’è più uno che possa rappresentare la società e presentarsi con la sua faccia per essere riconoscibile dai tifosi. Gaucci era cresciuto con il senatore Dino Viola, un presidente che era riuscito a fare grande la Roma e a rompere il monopolio delle grandi sorelle del Nord. Oggi quel ruolo l’ha assunto Aurelio De Laurentiis con il Napoli, ma è un’altra storia… Per fortuna che c’è Antonio Percassi che con la sua Atalanta ha costruito un modello capace di dettare legge anche in Europa».
Il “Percassi del Sud” è stato il friulano Maurizio Zamparini, assieme avete vissuto stagioni memorabili a Palermo.
«Se oggi ci fossero dieci Zamparini in circolazione allora il calcio italiano non sarebbe in pericolo. Zamparini era unico, purtroppo non clonabile. Per il Palermo gli ho visto fare di tutto, persino caricare i giocatori sulla sua macchina e accompagnarli a comprare le scarpe. Più dei tanti colpi di mercato che abbiamo realizzato mi piace ricordare le sue telefonate alle 7 del mattino, magari per mandarmi a quel paese. Ma anche quello era il suo modo per dirmi che mi stimava e che mi voleva bene. Ho sofferto molto per la sua fine: non ho le prove ma credo che Zamparini sia morto di dolore per la perdita di quel figlio (Armando): aveva 22 anni, ma ne parlava sempre come del suo “bambino”».
La “trilogia” dei patron vulcanici si chiude con Claudio Lotito.
«Alla Lazio con lui ho partecipato a una ristrutturazione epocale del club che ha salvato dal mare di debiti in cui stava affondando. Con Lotito ci insultavamo tutto il giorno, ma lui è un incassatore incredibile e poi in un attimo è capace di appianare tutte le discussioni. In quella Lazio non potevamo permetterci di spendere miliardi come avevano fatto i Cragnotti, però portai diversi talenti. Uno di questi è stato Meghni, giocatore fantastico, lo chiamavano il “piccolo Zidane”. Quando mi chiedono quale sia stato il più forte campione inesploso che abbia mai trattato, il primo nome che faccio è il suo, Meghni è stato davvero un grande talento sprecato.
Meghni era passato dal Bologna dove poi anche Sabatini è andato su chiamata di Joe Saputo che ha riportato i rossoblù tra le grandi d’Europa. Se lo aspettava il Bologna in Champions?
«Sì perché Joe Saputo non uno dei tanti “yankee” digiuni di calcio sbarcati da noi, lui mastica calcio da anni a Montreal dove ha una società ben strutturata. Si è affidato a Claudio Fenucci che è un dirigente che ha lavorato bene al Lecce e alla Roma, il resto lo ha fatto il fiuto strepitoso di un grande uomo di mercato come Giovanni Sartori. Il Bologna è una nuova Atalanta. Thiago Motta ha portato la squadra a dei livelli stellari, adesso Italiano dovrà avere una rosa ampia per continuare a fare bene in campionato e in Champions».
Due anni fa a Salerno la permanenza in A è valsa quanto una Champions vinta. E quell’impresa la condivise con Davide Nicola.
«L’hanno santificato come l’allenatore dei “miracoli da salvezza”, mentre se gli danno una buona squadra, e il Cagliari potrebbe essere quella giusta, Nicola può fare grandissime cose. Perché è uno che allena con intelligenza ed empatia , possiede un cultura personale importante. E poi, come Zamparini, anche lui è stato colpito dal dolore più grande: la perdita del figlio. Non me lo ha mai detto espressamente, ma dalle nostre chiacchierate ho capito che quella forza straordinaria che mette nel calcio, la disciplina e la capacità di correggersi continuamente, è qualcosa che gli arriva da Lassù, da quel figlio amato che è il suo angelo custode».
Nel novero delle “persone speciali” come Nicola, che ha incontrato facendo questo mestiere, chi mette in cima alla sua classifica?
«Gli amici veri, Mauro Baldissoni e l’avvocato Rocco Dozzini. Due intelligenze inesorabili, due presenze rare che riesco a sopportare, perché io dopo un po’ mi annoio. Rocco ogni tanto fa l’agente, ma non gli frega niente di guadagnare con il calcio, a Perugia punta tutte le sue energie sull’organizzazione dell’evento culturale “Encuentro” ed è un tifoso sfegatato dell’Inter… L’unica società dove tornerei, per ritentare. Accettai l’incarico lavorando dalla Cina e ho sbagliato, se fossi stato operativo da Milano avrei inciso molto di più. Ma è andata così e non posso neanche provare rimpianto perché uscito dall’ospedale ho abolito per sempre il rammarico».
Dopo di lei ci sarà un altro Sabatini nel calcio?
«Intanto ci sarebbe il sottoscritto che con calma è pronto a ricominciare. Mio figlio Santiago vorrebbe fare questo mestiere, ma prima di guardare tutto il calcio possibile e immaginabile, sa che deve studiare e laurearsi. Fin da piccolo gli ho insegnato che non sono i soldi che rendono gli uomini prigionieri, ma l’ignoranza».
Se dovesse tracciare un bilancio di questi trent’anni da ds come li valuta?
«Come la vera metafora della mia esistenza. Sono stato ad un passo dal vincere campionati e poi mi sono ritrovato a riva con la carcassa di qualcosa o di qualcuno. Ma in fondo sono stato molto fortunato: ho commesso errori e fatto delle cose inenarrabili che non rifarei, però dentro di me non provo più un dolore reale. C’ho messo tanto per arrivarci, ma adesso osservo e valuto tutto come in questo momento guardo il mare, con la giusta distanza…».