L'attore. Dal teatro al cinema: il «Rwanda» di Marco Cortesi
Marco Cortesi e Mara Moschini, protagonisti di "Rwanda"
Questa intervista all'attore marco Cortesi sul film Rwanda è un'anticipazione dal prossimo numero della rivista “Credere”
«Chissà, forse se a vent’anni non fossi andato in ex Jugoslavia con gli scout oggi non sarei qui, sul red carpet nella capitale europea del cinema». Chi parla così è Marco Cortesi, interprete e co-sceneggiatore del film Rwanda, sul genocidio del 1994. La pellicola narra la storia vera di un ragazzo hutu e una ragazza tutsi, Augustin e Cecil, che durante i massacri, riuscirono coraggiosamente a salvare oltre 20 persone. Lo raggiungiamo mentre si trova a Parigi, dove il 7 aprile scorso ha ritirato il premio assegnato dall’International Film Festival per il miglior film europeo del 2019. Un risultato strepitoso (primo fra 80 pellicole in gara, una quarantina di Paesi rappresentati) per una «produzione dal basso» nata quasi per scommessa.
Possiamo parlare di piccolo-grande miracolo?
Dopo 480 repliche in teatro di Rwanda, avevamo pensato di realizzare un video, poi s’è optato per una vera e propria fiction. Condivisa l’idea con la nostra community su Internet, abbiamo avviato il crowdfunding, che ci ha portato il doppio (30mila euro) dell’obiettivo fissato. Ciò ha dato inizio a un effetto- domino virtuoso: sponsor privati e alcune Ong ci hanno dato una mano e siamo riusciti a realizzare il film, girando in Africa con una troupe di 30 professionisti, un cast di attori principali e 400 comparse.
Bisogna credere nei propri sogni…
È stata una grande lezione di fede nella Provvidenza. Martin Luther King diceva: «Per fare il primo passo non hai bisogno di vedere tutta la scala». Oggi invece ai giovani sembra mancare questo atteggiamento di fiducia. Incontriamo di frequente i millennials nelle scuole: ragazzi fantastici, ma spesso caratterizzati da ansia e timore, hanno bisogno di avere tutto chiaro, dalla A alla Z. La vita non funziona così: bisogna partire, rischiare. Il resto arriva col tempo.
La vostra stessa avventura artistica è nata così.
Mi sono avvicinato al teatro partendo da un’esperienza di volontariato internazionale vissuta in ex-Jugoslavia con l’Agesci. Non avevo ancora vent’anni. Per alcune settimane abbiamo fatto animazione in un campo profughi a Pola, in Croazia. A contatto con gente che aveva perso tutto, siamo stati costretti a ripensare a ciò che davvero conta nella vita: io e i miei amici siamo tornati profondamente cambiati. Non solo. Ogni giorno sentivamo storie di guerra, terrificanti, ma, in mezzo a tante vicende tremende, ci venivano raccontate anche straordinarie esperienze di coraggio.
Da lì, qualche anno dopo, è nato uno spettacolo, Le donne di Pola. E lei ha cominciato a fare teatro civile in pianta stabile…
Dopo un’esperienza di lavoro con la Rai, ho deciso di dedicarmi totalmente al teatro civile. Nel 2013 (l’idea è stata della mia compagna) abbiamo realizzato un nuovo spettacolo, La Scelta. E tu cosa avresti fatto?, tratto da un libro di Svetlana Broz I giusti nel tempo del male: sette testimonianze di atti di coraggio e solidarietà durante il conflitto bosniaco.
Un messaggio ancora attualissimo.
Le persone di cui parliamo ne La scelta hanno scelto di rischiare la vita, nonostante tutto, per aiutare un altro essere umano che sulla carta era un nemico. Hanno deciso, insomma, di fare la cosa giusta. Ebbene: alla luce anche di quelle vicende, non abbiamo scusanti per dire «non posso farci niente ». Il messaggio che ci viene da tante storie del passato è questo: ognuno di noi è molto più potente di quanto crediamo e può fare la differenza, cambiare la storia, mutare il male in bene. Oggi è facile cadere nel cinismo; in realtà sono convinto che la gente buona sia molto di più di quella cattiva: valeva ieri in Ruanda o in ex Jusgoslavia, vale anche oggi.
Sul palco siete sempre in due…
Con me c’è Mara Moschini, anch’ella di Forlì. Ci siamo incontrati a Roma: dopo essere diventati coppia nella vita, è nato anche il nostro sodalizio artistico, cementato dalla comune passione per il teatro civile. Entrambi siamo spinti dalla voglia di fare del nostro mestiere qualcosa che abbia un significato, per noi e per gli altri.
Infatti il vostro motto suona: «Vogliamo cambiare il mondo una storia alla volta». Cosa c’entra l’esperienza scout con il suo modo di esprimersi?
Sono stato scout per più di vent’anni e sono veramente grato a quel metodo educativo che ti insegna a non aver paura della fatica, a continuare a credere nonostante le difficoltà; un metodo che, grazie a Baden Powell, declina il cameratismo in chiave di fratellanza e perdono. Se non fossi stato scout, non avrei fatto questo lavoro.
Ci sono figure che hanno segnato il suo cammino di fede?
L’esperienza in ex Jugoslavia per me è stata causa di una forte crisi di fede: era una guerra di potere spacciata per conflitto religioso. Mi trovai allora a sognare un mondo senza religioni (un po’ alla Imagine di John Lennon). Poi ci capitò di tenere uno spettacolo sulla tomba di don Tonino Bello, ad Alesano. E proprio il confronto con la figura e il messaggio di don Tonino mi ha permesso di rimettere a posto i pezzi del puzzle. Grazie a lui ho capito che Dio è sempre lo stesso, al di là delle strumentalizzazioni degli uomini.
Cosa l’affascina di più della figura di Cristo?
Le rispondo con un aneddoto. All’asilo dove andavo da piccolo mi è rimasta impressa la figura di una suora, Margherita: non sgridava mai noi bambini, ma, quando litigavamo, ci incalzava con una domanda sconcertante: «Che cosa avrebbe fatto Gesù? ». Ti metteva addosso un senso di colpa molto salutare (l’avrei capito molto più tardi…), regalandoci un’esperienza che mi ha segnato per sempre. Quel «cosa farebbe Cristo? » mi risuona spesso in mente. Mi chiedo: in presenza dei mercanti nel tempio, io avrei avuto il coraggio di mandare all’aria le bancarelle? Oppure di perdonare la prostituta pentita, sfidando il parere dei benpensanti? Gesù è uno tosto, vive in maniera militante la fede. Non era un vigliacco, ma uno che rischiava e diceva le cose in faccia ai potenti. Il medesimo coraggio lo ritrovo in papa Francesco. Anche chi non va in chiesa ne è conquistato: ha carisma e affascina perché si spende e non ha paura.
Lei è di Forlì, non può non avere familiarità con Annalena Tonelli, straordinaria figura di laica missionaria uccisa in Somalia nel 2003.
Conosco bene Annalena (un mio compagno di classe era suo nipote) e la considero una martire del coraggio. Anche per questo Mara ha prestato la voce in un musical su Annalena che un gruppo di giovani legati alla diocesi ha messo in piedi nei mesi scorsi e sta girando l’Italia con successo.