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Mar del Plata: la storia dei 17 sportivi argentini uccisi nel '78. I desaparecidos del rugby

Massimiliano Castellani venerdì 6 novembre 2015
La storia del La Plata Rugby Club si legge nel romanzo Mar del Plata (Add Editore), bello e struggente, scritto di cuore e di pancia da Claudio Fava, giornalista, scrittore, sceneggiatore (I cento passi di Marco Tullio Giordana) e deputato. Tranne quello di parlamentare, tutti gli altri mestieri li aveva esercitati anche suo padre, Giuseppe Fava: fondatore del giornale antimafia “I siciliani” e per questo ucciso da Cosa Nostra nel 1984. Fava, lei nel 1978 aveva vent’anni, la stessa età di quei ragazzi di “Mar del Plata”. Ma cosa sapeva all’epoca di queste storie di desaparecidos?«Ai tempi noi giovani italiani sapevamo tutto dei crimini del Cile sotto la dittatura di Pinochet, ma delle atrocità dell’Argentina di Videla c’era arrivato poco o niente. Ne avevano maggiore coscienza gli olandesi, il grande Johan Cruijff aveva scelto di non andare al Mundial e i suoi compagni di nazionale al termine della finale persa con gli argentini si rifiutarono di stringere la mano ai militari». Come ha scoperto questa storia - insabbiata come tante altre - del La Plata? «Leggendo gli articoli pubblicati dal giornalista e scrittore argentino Gustavo Veiga. Dallo spunto di cronaca ho deciso di ricostruire una storia in cui i nomi e i personaggi fossero di fantasia allo scopo di non riproporre un semplice “documento”, ma piuttosto usare a pretesto lo sport per denunciare la tragedia dei desaparecidos. E tra questi, le 30-40 mila vittime del regime, abbiamo scoperto che c’erano anche rugbisti, calciatori e membri della comunità sportiva argentina». Lei nel romanzo oltre a mischiare il siciliano con lo spagnolo, in postfazione associa la storia dei ragazzi del La Plata con quella delle vittime di mafia, come Peppino Impastato, assassinato anche lui in quel maggio ’78.«Ci sono delle drammatiche affinità tra i desaparecidos e le vittime della mafia e la matrice comune è data dalla difesa fino alla morte della propria dignità. I generali argentini o i tiranni di qualsiasi stato, così come i mafiosi, abusano con la violenza, con la negazione di ogni regola, con la menzogna, e chi sta dalla parte della giustizia a questa forza maligna oppone quella della verità, si difende vivendo con la schiena dritta. Per i rugbisti del La Plata questo significò giocare la propria partita fino in fondo, entrando in campo al grido di “libertà”».Una forma di resistenza come quella che fecero i nostri partigiani.«Infatti il personaggio di Pablo che si toglie la vita - gettandosi dal tetto del suo palazzo con il pugno chiuso - pur di non farsi catturare dai militari, è ispirato a Dante Di Nanni, 19enne partigiano torinese che nella Torino occupata si gettò dal balcone per non finire nelle mani dei nazifascisti». Hugo Passarella, il mister, ricorda un po’ Osvaldo Soriano, il grande scrittore - anche di sport - argentino che per scampare agli uomini di Videla riparò esule in Belgio. «Anche al mio Passarella offrono la possibilità di fuggire in Francia, ma lui alla fine decide di rimanere con la squadra, ed è l’unico consapevole dell’epilogo: la condanna a morte già emessa che attende lui e i suoi ragazzi». Un sacrificio che per lei rimanda a quello della scorta del giudice Paolo Borsellino. «Il La Plata giocando lo stesso e vincendo, mentre perde, ammazzati uno a uno, i suoi giocatori, non viene meno allo spirito di lealtà e al rispetto assoluto delle regole che è l’anima del rugby. Così come gli uomini della scorta di Borsellino rinunciarono al trasferimento e alle ferie pur di restare fedeli al dovere e al loro profondo senso di responsabilità. Nessuno di questi ragazzi vuole morire, ma nessuno se la sente di venir meno all’impegno preso». Chi è oggi Raul Barandiaran Tombolini, il protagonista del suo romanzo, l’unico sopravvissuto del La Plata? «È un uomo della mia età che ha perso degli amici, dei compagni di squadra, nel periodo più bello e “rivoluzionario” della vita. Raul con pudore custodisce la memoria, coltivando quel senso di colpa tipico di tutti quelli che sono scampati allo sterminio, al lager, alla mafia. Lui sa che è stata la forza dei vent’anni a far paura ai dittatori di ieri e anche a quelli di oggi».