Agorà

Venezia. Rousseau e il dazio della pittura

Maurizio Cecchetti venerdì 20 marzo 2015
​L’ostentato input grafico che sgomita ed enfatizza le scritte tratte da un’antologia critica testimone del genio semplice e candido di Henri Rousseau, ovvero il decorativismo tipografico del catalogo (edito da 24Ore cultura) che accompagna la mostra del Doganiere aperta da pochi giorni a Venezia, negli spazi di Palazzo Ducale, a cura di Gabriella Belli e Guy Cogeval, è esattamente l’opposto della purezza un poco beota del pittore che si è soliti accostare al primitivo. Henri Rousseau fu una specie di clown che rallegrò la vita di Montmartre e della Parigi del primissimo Novecento. «Aveva sul viso il raggio della bontà», scrisse Fernande Olivier, all’epoca compagna di Picasso.
 
E ce ne offre un ritratto più tipico raccontando le serate che Rousseau allestiva nel suo atelier, alle quali partecipava la gente del popolo, fornai, droghieri, macellai, e gli artisti naturalmente. Apollinaire era un habitué delle “serate Rousseau”, dove il Doganiere suonava qualche aria al violino per aprire le danze, poi i personaggi più strani salivano in pedana e recitavano e cantavano fino allo stremo delle forze.
 
Quando tutto finiva, il Doganiere, soddisfatto, esclamava: «Una serata riuscita!». Fu Picasso, racconta Fernande, a voler organizzare nel suo atelier una festa per Rousseau, un banchetto nel quale intendeva sfottere un po’ l’amico. Rousseau era al settimo cielo e si ubriacò, fino a cadere in uno stato di torpore: «Era così felice che sopportò stoicamente, per tutta la sera, le lacrime di cera di un lampione che gli piovevano sul cranio.
 
Quelle gocce finirono per formargli sulla testa una specie di montagnola a forma di cappello da clown, che continuò a tenere in testa fino a quando il lampione non prese fuoco. Riuscirono a persuaderlo che si trattava dell’apoteosi finale. Allora Rousseau, che s’era portato il violino, suonò un piccolo pezzo». Ecco, questo era Rousseau. Un misto di candore e idiozia, selvatico ma pittore dallo sguardo sapiente.
 
Era nato in una delle due torri medievali della Porte Beucheresse, nella Mayenne, luogo di contadini e boscaioli, e questo legame con la terra non lo dimenticò mai. I boschi erano per lui il mito arcano della natura verdeggiante, incontaminata, un luogo sacro, dove le forze primordiali si esprimevano liberamente senza alcun vincolo morale. Diciamo che a lui si sovrappone, involontariamente, o per uno di quegli strani giochi del destino, l’altro Rousseau, il filosofo dell’Emile, inverando nella sua figura di artista dal «candore arcaico» una forma civilizzata di buon selvaggio. Una sorta di ossimoro realizzato, l’immagine comica e antitragica dell’idea che «l’uomo è naturalmente buono».
 
La mostra di Palazzo Ducale tenta di costruire una sorta di palinsesto delle dipendenze e delle influenze artistiche di Rousseau. L’impressione, però, è che Rousseau resti una cosa a sé: quando vedi un suo quadro difficilmente lo confondi con qualcos’altro (difficile, per esempio, pensare e un rapporto col primitivismo di Tullio Garbari, di cui in mostra si espone il magnifico dipinto della Creazione di Eva).
 
Nel 1872, all’età di ventott’anni, Rousseau fu assunto come gabelliere del dazio (non doganiere, precisa nel catalogo Yann le Pichon, evocando l’erroneo soprannome datogli da Alfred Jarry); nel 1885 espose i suoi primi quadri; nel 1886 Signac lo invitò al secondo Salon degli Indipendenti, dove presenta quattro tele.
 
Nonostante le ripetute apparizioni in mostre importanti, conduce però una vita di stenti; nel 1893 va in pensione, percependo un assegno annuale assai modesto; la vita grama continua, e soltanto all’inizio del Novecento la sua fama comincia a levitare: chi allude a un «Giotto moderno», chi a un «Paolo Uccello del nostro secolo», ma questi riferimenti, ben lontani dalla verità, sono anzitutto il segnale che nella sua pittura non c’è soltanto una disposizione d’animo pura, semplice, primitiva, c’è anche la coscienza della storia dell’arte.
 
E come poteva non essere così per chi viveva nella Parigi degli artisti, dei musei, delle esposizioni universali che portarono in Europa le testimonianze dell’arte orientale e delle culture tribali? Ancora Fernande ricorda quando, rivolgendosi a Picasso, il Doganiere disse: «Noi siamo i due più grandi pittori contemporanei. Tu nel genere “egiziano”, io in quello moderno». Fernande nota una cosa che costituisce implicitamente il giudizio critico più esatto sul Doganiere: «Che peccato non abbia illustrato libri per bambini! Li avrebbe capiti così bene».
 
Nel 1894 Rousseau dipinge il suo quadro più cruento: La guerra (o Cavalcata della discordia): il cavallo si distende al galoppo allungandosi come un formichiere pronto a lanciare la sua lingua, ovvero la spada della cavallerizza con aspetto di gorgone bellicosa. Sotto, stesi a terra, i cadaveri di parecchi uomini nudi, i corvi che si cibano delle loro carni, una vegetazione arida e alberi pietrificati come sculture (in mostra, a confronto, vari scampoli del Carrà primitivista dell’antigrazioso, il Pino sul mare, trionfi di morte di Ensor e Goya, l’enfatico e funereo dipinto di Bouguereau Uguaglianza davanti alla morte).
 
Pare che Rousseau si fosse entusiasmato per le belve dipinte da Delacroix, e che l’istinto primordiale della bestia fosse per lui qualcosa di incantatorio (a dispetto del fatto che sembrava a tutti un bonaccione: ma chi più di un uomo mite e ameno è capace di guardare in faccia con una certa incoscienza il terrore di cui la natura è capace con le sue inopinate scariche di violenza?).
 
Quella di Rousseau è vera empatia verso la madre lussureggiante, il bosco come paradiso incontaminato, la foresta tropicale dove domina l’orangotango, il babbuino, dove la tigre e il giaguaro sono colti nell’attimo in cui ghermiscono la preda.
 
C’è un momento, nella pittura di Rousseau, in cui il mondo naturale emerge da una stratificazione di forme vegetali piatte e ben delineate, come in una pittura orientale; sembrano sculture bidimensionali, nei cui anfratti si trovano, avvolte dentro questa immensa placenta verde, le presenze animali, più raramente l’uomo.
 
Nel 1902 prova a fare qualcosa del genere dipingendo un angolo del parco di Bellevue, Rousseau, ma la magia del primitivo è come scomparsa, s’impone una sorta di arabesco crepuscolare di alberi disposti secondo una sapiente paratassi. Quando Rousseau affronta quello che nel catalogo viene chiamato “l’ordinario” – cose comuni, scene di paesaggio, mulini, parchi, un dirigibile che sorvola la campagna di Parigi –, il suo stile tende a farsi naïf in senso proprio, forma incolta, rapsodia retrocessa a dettati preprospettici; si capisce perché piacesse ai pittori del Blaue Reiter e ai surrealisti; l’accostamento tra i suoi vasi di fiori con le nature morte di Morandi, Redon, Donghi, rivela che era un vero pittore, ma non ci convince a credere che gli artisti citati abbiano preso in qualche modo ispirazione da lui.
 
Così, lo stile da “ex voto” che sembra dominare la sua pittura spontanea solo in apparenza, è un gioco che lo stesso Rousseau regge con l’astuzia del semplice, dell’uomo della terra, che sa quello che più conta per l’uomo: la poesia, non l’artificio della perfezione tecnica che vuole superare la verità stessa della realtà visibile. La sua vera erede, più cerebrale e interiormente dilaniata, è Frida Kahlo.
 
Venezia, Palazzo Ducale
Henri Rousseau
Fino al 5 luglio