«N on mi sento di far parte integrante della vita moderna. Il mio vero mondo va a ritroso nel tempo, risale all’età delle cattedrali ». Questa confessione autobiografica di Rouault – che ammicca anche alla sua genesi artistica primigenia, quella di maestro restauratore di vetrate medievali – mi permette di svolgere una libera e modesta riflessione personale su questo artista, al quale sono dedicate ben più importanti e accurate analisi ermeneutiche. Egli, infatti, con la sua opera incarna alcuni elementi capitali di un’antica tradizione che non temeva di inserire nei propri Statuti d’arte una dichiarazione come quella che leggiamo nel programma degli artisti senesi del Trecento: «Noi siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede ». Rouault rivela la profonda sororità tra arte e fede, tra immagine e icona, tra simbolo ed epifania, tra illustrazione ed esegesi. Non per nulla la sua vita e la sua opera furono ribaltate e fecondate dall’incontro sia con uno scrittore fieramente religioso come Léon Bloy, sia con un pensatore ininterrottamente in marcia sul crinale tra filosofia e teologia come Jacques Maritain. Anzi, le sue più possenti litografie sono scandite da titoli emblematici, come l’indimenticabile Miserere che intreccia male e liberazione, peccato e redenzione proprio come nell’omonimo Salmo 51 (50) assegnato dalla tradizione al re artista, Davide. Ancor di più, direi che tutta la sua opera – prescindendo dal rimando esplicito al codice sacro – è costantemente una celebrazione dell’Incarnazione, il centro teologico del cristianesimo. Infatti, le sue prostitute, i suoi clown, i giudici, gli orrori della guerra, gli stessi «fiori del male» non fanno che trasformare in teofania anche i bassifondi della storia, sulla scia di quel Cristo che non era venuto per i sani ma per i malati, che andava in cerca di chi era perduto, che non temeva la cattiva compagnia degli ultimi, divenendo ospite di quell’«albergo dei poveri» che è la regione della notte, dell’emarginazione, del rifiuto. Per questo la figura più amata, sulla quale il pittore parigino ricama le sue più intense e tormentate iconografie, è quella del Christus patiens che trascolora nelle fisiono- mie dei miserabili della storia. Proprio per questo anche un teologo, com’è chi scrive, non ha potuto far a meno di avere sulle sue pareti domestiche una litografia rouaultiana. E qui entra in scena un altro elemento suggestivo che connette arte e spiritualità, quello del colore. Sappiamo che, se per Guitton il colore è lo svelamento supremo della luce, per Goethe esso era piuttosto la sofferenza della luce che si frange e rifrange nello spettro cromatico perdendo la sua unità «simbolica». Ebbene, Rouault ha scelto una via sconcertante, quella del nero che a prima vista sembra essere non solo la cancellazione del colore, ma della stessa luce. In realtà, il suo è un ossimoro visivo perché la sua è una luminosità notturna, è la luce che si annida nel grembo della tenebra fonda. In lui il nero diventa non assenza, ma la nuova sintesi dei colori perché, come diceva de Musset, i «canti più belli sono i canti più disperati». In questa linea si ritrova, allora, il cuore stesso dell’Incarnazione, la passione e la morte del Figlio di Dio. Un evento che è di sua natura anch’esso un ossimoro (Dio non può morire perché eterno); eppure, esso si fa realtà divenendo «scandalo e stoltezza» per la logica formale, come dirà san Paolo, ma che è «potenza e sapienza» divina, perché è proprio entrando nel dolore e nella morte che Dio può redimere la caducità e il male della storia. Per questo la cultura delle origini cristiane, a partire dal III secolo, non temette di immaginare per Cristo un viso deforme, di accogliere nel suo profilo il nero della bruttezza, sulla scia del Servo sofferente cantato da Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere» (53, 2). Lapidario era stato Origene: «Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla», appunto ai clown e agli emarginati sociali di Rouault. Eppure, «è per le sue piaghe che noi siamo stati guariti», continuerà Isaia (53, 5), facendo balenare l’alba della Pasqua quando, «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce… e il giusto mio Servo giustificherà molti» (53, 11). Cantore dell’Incarnazione, Rouault merita forse la definizione che spesso gli attribuiscono i manuali: «Il maggior pittore d’arte sacra del Novecento ». In realtà, la sua è, però, arte allo stato puro, che non registra e rappresenta il visibile sottoponendolo a decifrazioni con strumenti estrinseci filosofici o teologici o piegandolo ai canoni della catechesi o dell’apologetica. Egli nel visibile, pesante e carnale, tenebroso e opaco, cerca invece di intravedere l’Invisibile che vi è custodito. Un po’ come affermava Hermann Hesse nel suo Klein e Wagner: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio». «Il duro mestiere di vivere» (1922) Georges Rouault, «Cristo in croce» (1936), acquaforte e acquatinta. Sotto: l’artista francese al lavoro