Opera. A Pesaro ritorna la magia di Rossini
Una guerra per l’acqua. Il Sud nella morsa della siccità lotta contro il Nord per attaccarne le riserve idriche. Così La Fura dels Baus rilegge Le siège de Corinthe di Gioachino Rossini. «Nonostante l’idea di raccontarla come una guerra di religione, quindi molto attuale visto ciò che la cronaca quotidianamente ci propone, potesse sembrare quella vincente », dice Carlus Padrissa, regista del nuovo allestimento del melodramma che giovedì inaugura l’edizione numero trentotto del Rossini opera festival di Pesaro. Sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai Roberto Abbado. Le siège de Corinthe (Rossini lo scrisse per Parigi nel 1826 riadattando il suo Maometto II andato in scena sei anni prima a Napoli) racconta, infatti, dei musulmani che a metà del quindicesimo secolo, guidati da Maometto II, assediano al città greca.
«Ma la religione è sempre stata solo un pretesto nelle lotte di potere, nelle guerre che i ricchi fanno combattere ai poveri», dice ancora il regista del gruppo catalano che per la prima volta si confronta con un titolo di Rossini. «La sua musica mi ha colpito da subito: è perfetta, ti cattura e, quasi come un mantra, ti strega», dice Padrissa che firma anche le scene dello spettacolo. «Un grande muro di bottiglie di plastica piene d’acqua. Un terreno arido. Questa la cornice nella quale ambientiamo l’azione. Usiamo solo sei metri di profondità del vasto palcoscenico dell’Adriatic Arena e mettiamo una passerella tutta intorno all’orchestra per portare l’azione in primo piano e proiettarla verso il pubblico », spiega il regista sostenitore di un teatro «immersivo dove chi guarda non è solo uno spettatore esterno, ma è tirato dentro la storia, immerso, appunto, nelle immagini e nella musica». Approccio ideale per l’opera lirica che è uno «spettacolo globale, che racchiude in sé musica, parole, immagini e danza». Ma anche per La Fura dels Baus, gruppo catalano nato nel 1979 e diventato popolare in tutto il mondo dopo aver curato la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Barcellona nel 1992. «Dopo i grandi spettacoli di strada, dopo le macchine sceniche ora abbiamo scelto la strada della semplicità. Un po’ perché la crisi economica, inutile nasconderlo, si fa sentire nella lirica e i budget sono più ridotti. Ma anche perché siamo convinti che la semplicità sia il modo più diretto per arrivare al pubblico».
Succederà anche a Pesaro con Le siège de Corinthe. «Abbiamo scelto di raccontare la guerra declinandola con una tematica attuale, quello dall’acqua: pensiamo alla siccità che colpisce le campagne, alla necessità di razionare l’acqua in città come Roma, argomenti di questi giorni. Ma l’ambientazione non sarà moderna. Piuttosto senza tempo. Perché le guerre, c’erano ieri come oggi e, purtroppo, ci saranno anche domani. Si combatte per ogni cosa. E la religione è sempre stata solo una scusa per combattere, per avere il potere e il controllo economico», spiega Padrissa tornando al tema dell’acqua. «Cercare l’acqua è cercare la vita, perché senza essa nulla può esistere. Un elemento prezioso, tanto più che non è stato inventato dall’uomo, ma è un bene che abbiamo ricevuto e che dobbiamo preservare ». Il blu dell’acqua, ma anche il rosso del sangue a dominare scene e costumi. «Che sono simili per turchi e greci, per assediati e assedianti. Una sorta di doppia pelle, graffiata, che si stacca dalla carne come dopo un attacco nucleare. Unica differenza il sangue che macchia i corpi dei turchi», anticipa il regista spiegando poi che nello stendere la drammaturgia il gruppo di lavoro della Fura si è ispirato «al libretto di Luigi Balocchi e Alexander Soumet, ma anche all’omonimo racconto di Byron. Ci siamo anche ispirati alla scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio di Kubric, quella delle scimmie, ancora una volta per dire che quella che raccontiamo è una storia quotidiana che potrebbe essere di oggi, come di ieri come di mille anni fa».
Il racconto della guerra, dunque. Ma anche di un amore, così come c’è nell’opera di Rossini, quello tra Pamyra e Néoclès. «Questo sì – dice Padrissa – immaginato come una storia di oggi, tra una ragazza mediorientale che ha lasciato la sua terra per studiare in Europa: qui ha incontrato l’amore, ma poi ha deciso di tornare in patria, trovandola assediata da milizie che potrebbero essere quelle dell’Isis. E ha deciso di combattere ». Sul palco Luca Pisaroni come Mahomet II, Nino Machaidze nei panni di Pamyra e Sergey Romanovsky in quelli di Néoclès, avvolti, come il pubblico, dalle immagini e dalla musica. «Uno spettacolo semplice, che potrà essere portato in altri teatri e, perché, no, in strada. Un ritorno alle origini. Che, come Fura dels Baus non abbiamo mai abbandonato. Penso, visto che siamo in tempo di celebrazioni per Monteverdi, all’Orfeo che abbiamo fatto nel 2007 nel porto di Barcellona, illuminato da 400 candele e con il pubblico libero di girare sulla scena. Monteverdi, inventore del teatro immersivo, lo consente. Ma mi piacerebbe applicare questo schema a tutte le regie d’opera che ci vengono proposte», rivela Padrissa che, con il gruppo catalano sta preparando « Die soldaten per la Köln oper, ma anche un’installazione per Taiwan, una scenografia di luce ispirata alla Tetralogia di Wagner che dovrebbe essere vista da 50mila persone a sera. Pochi elementi nel segno della semplicità perché, siamo sicuri, la vera innovazione è tornare all’antico», conclude il regista per il quale «oggi la vera provocazione è il silenzio. Lo diciamo dopo aver fatto della provocazione una delle nostre bandiere: siamo stati innovatori e provocatori, ma oggi a guidarci è lo stupore».