Agorà

INTERVISTA. Ron: «Porto sul palco la fede e il mio sì alla vita»

Abdrea Pedrinelli mercoledì 4 marzo 2009
Sta girando l’Italia un concerto che non è un concerto. Non può es­serlo, se vi è in scena Mario Me­lazzini, presidente dell’Associazione I­taliana Sclerosi Laterale Amiotrofica, in carrozzina perché affetto lui per pri­mo da questa terribile malattia. Non può esserlo, se vi si riflette sul diritto al­la vita o sul dramma della morte. Le canzoni – è vero – possono dire tante cose: però è raro che i loro autori si mettano in gioco oltre i loro versi. Che svelino paure e valori, credo e soffe­renze. Bene, nel concerto- non con­certo L’altra parte di Ron accade inve­ce proprio questo. Senza dischi da pro­muovere, senza neppure proporre tut­ti i suoi successi, Ron azzarda un in­contro vero, senza rete, con la gente. Fra una canzone e l’altra dialoga tra­mite filmati con la madre, l’amico Dal­la, il suo padre spirituale. O parla, ap­punto, con Melazzini, unica presenza fisica con lui sul palco. E così facendo dice solitudine e fede, serenità e fati­che. Rivela la malattia del padre, giun­ge a confessare quante volte la musi­ca sia stata per lui rifugio. Nel senso di alibi. E se gli si chiede quanto sia così anche oggi, la risposta spiega bene il si­gnificato di questa sua sfida nei teatri. Forse dice molto pure dello spessore di Rosalino Cellamare: dietro la masche­ra di Ron. «Mannaggia a lei, è proprio questo il punto del lavoro… Ho un no­me, canzoni note, potrei fare di loro un rifugio. Da qui a sempre. Ma non mi basta più. E’ tempo di essere me stes­so sino in fondo. Di dire cose oltre la musica. E la gente, beh, vedo che ha voglia di ascoltare. Di essere spiazza­ta, spinta a pensare». Ron, cosa l’ha portata a questa scom­messa? Il fatto che le canzoni oggi, per tanti motivi, non danno più la possibilità di comunicare davvero come facevano anni fa. A teatro si può invece provar­ci ancora. Mi sono detto: se non oso a­desso, quando? Credo sia il momento di far venire fuori tutto di me. Pure quello che la gente non sa né immagi­na. Compresi vissuti personali, che però credo comuni a tanti. Il pubblico come ha reagito nelle pri­me repliche? All’inizio sono spaesati: poi i dubbi scompaiono. Io non vedevo l’ora di ar­rivare loro senza filtri, loro forse vole­vano confrontarsi davvero con qual­cuno. Anche quando denuncia, con Melaz­zini, una società che emargina la sof­ferenza perché fa paura? Sì. Quando tocchiamo certi temi l’at­tenzione è pure esagerata. E, finora, senza reazioni negative. Con che criteri affrontate tematiche oggi molto delicate, come il testa­mento sul fine vita?Intanto assumendoci la responsabilità di proporre un pensiero su cui riflette­re seguendo un testo preciso, per non uscire mai dal seminato: su certi temi non sarebbe ammissibile. E poi però anche sottolineando il nostro sì alla vi­ta. Per noi, Mario e io, significa pro­muovere l’iniziativa Liberi di vivere: perché tutti possano avere dalle istitu­zioni quanto necessario per vivere con dignità anche nella malattia. Mezzi tec­nici, economici, psicologici. Perché vi possa essere una vera pari opportunità di scelta, tra vita e morte. Dal palco parla anche della sua fede. Nessun dubbio, nel portare sotto i ri­flettori valori tanto intimi? Non lo faccio per attirare l’attenzione: racconto una mia convinzione, essere guidato da Dio. Malgrado le mie man­canze, anche nelle difficoltà. E sento che la gente capisce. Perché la fede è una risposta mia, ma il bisogno di a­mare ed essere amati è di tutti. Scusi, però: dopo che ha parlato di fac­cende come queste, che senso man­tiene per lei cantare canzoni? La musica può far volare le parole che dico. In modo forse più giusto, ma – soprattutto – senza arroganza.