Sono passati trent’anni dalla morte di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, il 24 marzo del 1980, ucciso sull’altare, con un solo colpo di fucile, mentre celebrava la Messa. La sua figura ha suscitato forti sentimenti. La polemica o la passione hanno avuto la meglio sulla ricerca scientifica (anche se oggi abbiamo a disposizione una biografia definitiva, quella di Roberto Morozzo,
Primero Dios, edita da Mondadori). Chi fu Romero? È il salvadoregno più noto di un Paese che non ha avuto l’onore delle cronache internazionali con l’eccezione di quando fu una delle poste in gioco della guerra fredda: nei giorni scorsi il parlamento del Salvador ha decretato il 24 marzo «Giorno di monsignor Oscar Arnulfo Romero». Il vescovo-martire è divenuto, per alcuni, il simbolo dell’impegno per la liberazione. Per chi tale posizione ha osteggiato, è figura poco chiara. Alla vigilia della celebrazione dei nuovi martiri, nel 2000, parlai di Romero con Giovanni Paolo II per quella celebrazione: «Dicono che sia una bandiera della sinistra», mi disse il Papa. Io gli ricordai la sua visita a San Salvador, quando si impose per andare sulla tomba dell’arcivescovo, nonostante la volontà contraria del governo. Stese le mani sulla tomba e disse: «Romero è nostro». Alla celebrazione dei nuovi martiri al Colosseo il Papa disse: «Pastori zelanti come l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, assassinato sull’altare durante la celebrazione del Sacrificio Eucaristico». Sì, Romero è un sacerdote martire sull’altare. È da qui che bisogna cominciare a guardare la sua vita. Romero non si sentiva un eroe. Aveva paura di morire. Mi ha confidato il cardinale Moreira Neves che, il 31 gennaio 1980, nel suo ultimo passaggio a Roma, Romero gli disse che pensava che sarebbe stato ucciso presto, anche se non sapeva se dalla destra o dalla sinistra. Tuttavia non chiese un posto a Roma, ma tornò nella sua diocesi. Un mese prima di morire scriveva: «Ho paura per la violenza verso la mia persona. Sono stato avvertito di serie minacce proprio per questa settimana. Temo per la debolezza della carne ma chiedo al Signore che mi dia serenità e perseveranza… Gesù Cristo assistette i martiri e, se necessario, lo sentirò più vicino nell’affidargli il mio ultimo respiro. Ma più prezioso che il momento di morire è affidargli tutta la vita, vivere per lui».Nel clima nebbioso e confuso della Guerra fredda nella periferia centroamericana, visse e predicò la fede. Occorre comprendere meglio tutta la sua storia, non solo quella degli ultimi anni, quasi che la vita precedente sia niente. Romero aveva studiato a Roma: era un prete romano, distaccato dal clima nazional-clericale di una parte del clero salvadoregno. Rappresenta quel clero che la Santa Sede voleva costruire in America Latina dalla fine dell’Ottocento: preti seri, pastorali e spirituali. Romero era stato toccato dal «Movimento per un Mondo Migliore» del gesuita padre Lombardi. Il magistero del Papa, in particolare Paolo VI, era decisivo per lui, che si muoveva nel linguaggio dei documenti montiniani, memorizzati e interiorizzati. In una lettera al cardinal Pironio nel 1977 scriveva: «Alcuni tendono a radicalizzarsi e a far uso della violenza come risposta, il che la Chiesa non può accettare e condanna… Ci preoccupa pure la durezza di cuore di quelli che potrebbero fare qualcosa di più per la tremenda miseria del nostro popolo… I nostri appelli alla non violenza e a una vita e giustizia cristiane basate sul Vangelo e sul magistero della Chiesa sono attaccati pubblicamente e anonimamente da chi si sente colpito. Ci consola pensare che la nostra attività è conforme al Vangelo e a quanto la Chiesa universale ha proclamato…». Questa è la sua posizione, anche se non aveva politiche da suggerire nel quadro della lotta. L’arcivescovo parla di fede e pace, difendendo i poveri e mantenendo vive le attività della Chiesa. Romero non è un politico e si sente
defensor civitatis, maestro di umanità per l’intera società. Non è facile fare i conti con le ragioni del governo, davvero non alte, e con il fondamentalismo politico della guerriglia. Romero considera il suo magistero come alta istanza etica e umana. Ma, a El Salvador, nel quadro della polarizzazione, non c’è spazio. Anzi, quando tale spazio si apre, va brutalmente chiuso. Non ci doveva essere una posizione intermedia, superiore ai due fronti in lotta. Romero è un vescovo in tempi difficili, anzi impossibili. Pose se stesso e la sua Chiesa, come guida verso la pace, quando non si vedeva lo sbocco politico per il domani. Credeva nella forza della fede: «Al di sopra delle tragedie, del sangue e della violenza, c’è una parola di fede e di speranza che ci dice: c’è una via d’uscita… Noi cristiani possediamo una forza unica». Resta un modello di vescovo fedele. Monsignor Romero fu un vescovo al servizio del Vangelo e della Chiesa. Il suo motto episcopale era
Sentir con la Iglesia. La sua priorità:
la salus animarum. Se Giovanni Paolo II fu un «liberatore» nel cuore europeo della Guerra fredda, Romero fu un martire nell’estrema periferia di questo scontro. A trent’anni dalla sua morte, liberi dalle passioni di chi fu coinvolto nella storia di allora, ma non così lontani nel tempo da non poter capire il dramma e l’esemplarità della figura, dobbiamo avere il coraggio di fare i conti con questo martire, che è figlio della Chiesa e che tutto aspettava da lei. La paura verso di lui è una cattiva consigliera, che condanna a non far fruttificare il sangue che Romero generosamente sparse sull’altare. Nella storia dello spirito, che scorre profonda oltre la cronaca delle passioni, Romero resta una figura decisiva. Non per l’importanza del suo Paese. Non per l’acutezza sociopolitica del suo pensiero. Ma perché fu un martire.