Agorà

Storie di cuoio. Romanzo sentimentale. Che storia quella Lazio del '74

Massimiliano Castellani venerdì 8 marzo 2024

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Essere laziali significa continuare a credere nell’utopia dell’eterno ritorno al vano successo, e questo a maggior ragione dopo un 3-0 secco, implacabile, subito dalla Lazio del subdolcomandante Sarri dai panzer del Bayern Monaco. Ma per capire questa filosofia che va alla voce “lazialità”, bisogna aver vissuto certe sconfitte, patito quei dolori di un passato che non è mai terra straniera, perché torna quasi sempre mischiandosi al privato, al domestico. Un passato che affonda radici in quegli anni per certi versi davvero formidabili e irripetibili che si ritrova stampato in tutti i libri memoriali e memorabili sulla Lazio di Guy Chiappaventi, il quale, scavando nella sua anima – biancocelestissima– induce il lettore- tifoso a fare altrettanto. Una regola del volevo essere “giornalista-giorna-lista”, ambizione realizzata dal compianto Andrea Purgatori (romanista sfegatato), sarebbe quella di non mischiare mai troppo il privato in un pezzo da offrire alla pubblica lettura, specie a quella maggioranza non laziale. Ma terminato di leggere 12 Maggio. Cinquant’anni dopo (Milieu, pagine 176, euro 16,50), il sequel romantico e appassionato di Pistole e palloni, non riesco a trattenere le emozioni personali e le affinità elettive che mi legano all’autore (inviato de La7 costretto ad occuparsi più di guerre e cronaca nera che di partite di calcio) e a questo suo ennesimo atto d’amore verso la Lazio. Un “secondo tempo” intenso e profondo, dedicato alla nostra generazione. Quella dei “pischelli” di allora, degli anni Settanta, cresciuti con la passione per quelle benedette (ma-ledette) domeniche consacrate al rito laico della devozione per la Lazio. I laziali sono da sempre pochi (in minoranza anche a Roma dove la fede giallorossa primeggia) ma questo un laziale verace come Enrico Montesano, quello dei tempi in cui era il mattatore del teatro leggero e della tv, il “Walter Chiari romano”, diceva di considerarlo “un dono divino”. Chiappaventi la nostra “unicità” la rappresenta a pieno quando scrive: «Sono stati anni terribili, eravamo la generazione post ’74, vivevamo la Lazio come una religione esoterica, una passione catacombale nella Roma bacchica di Falcao, loro erano il Carnevale di Rio, noi un rito nascosto». Consapevolezza della minoranza celata, ma piena di energie emergenti e di sana voglia di riscatto. “Uniti risorgeremo”, trascrivevo sul diario di Snoopy, un mantra, uno dei miei striscioni preferiti, registrato con la malinconica speranza di un Charlie Brown provinciale. Sì perché io all’Olimpico ci arrivavo dalla provincia, dall’Umbria felix, carico di sogni futuri metropolitani (scrivevo che sarei diventato inviato di sport per IlMessaggero, il giornale che portava a casa tutti i giorni mio padre Mario, il sosia dello storico portiere della Lazio Bob Lovati) che si sono quasi tutti avverati, come quelli di Chiappaventi (con nonna romana da sette generazioni), spostandoci un po’ più a Nord, qui nell’algida Milano. Sapessi come è strano essere laziale a Milano, ma del resto come insegna il maestro Eduardo Galeano: «A cosa serve l’utopia? A camminare». E abbiamo camminato e macinato chilometri appresso a quella Lazio che, dopo il ’74, ha conosciuto e si è sporcata di tutto il fango del dio pallone. I fallimenti, il calcioscommesse, la retrocessione in B e uno spareggio a Napoli, con Taranto e Campobasso, per non scivolare nell’abisso della C. Io c’ero quel giorno che la Lazio (quella dell’87 di Fascetti, partita con l’handicap del - 9) battendo il Vicenza si garantì lo spareggio per la sopravvivenza. Eravamo in 70mila all’Olimpico a guardare undici uomini, lontanissimi antenati di quelli dello scudetto del ’74, affannarsi per mettere dentro un pallone che non voleva saperne di entrare in quella rete salvifica. Poi un lampo di “Whisky” Fiorini, il mitico bomber Giuliano che non smetteremo mai di ricordare nelle nostre preghiere. Fiorini arpiona quel pallone e di punta lo insacca. Io e mio padre dall’ultimo gradone della Nord ci siamo ritrovati sprofondati a un passo dal “fossato”, con sconosciuti che ci abbracciavamo e ci consideravano parenti stretti appena usciti da scene da un matrimonio. Scene memorabili, come quegli anni duri in cui sognavamo di tornare a volare lassù, dove volano le aquile. E ci siamo anche riusciti, come ricorda Chiappaventi in quel fatidico 2000. Entrambi, perché troppo piccoli, non ricordiamo invece dove eravamo quella domenica 12 maggio del ’74 in cui gli italiani andavano a votare per il referendum sul divorzio e i laziali a festeggiare il primo storico tricolore. Lo scudetto della squadra del presidente “Papà”, Umberto Lenzini, quello del mister, ancor più paterno, Tommaso Maestrelli e dei suoi figliocci trascinati da “Long John” Chinaglia .

La rivincita dopo il titolo scippato del '73

Un titolo che era statto scippato l’anno prima, per colpa di una “resa dei conti” al San Paolo contro il Napoli e anche della perfida Roma che si scansò contro la Juventus (che vinse lo scudetto) pur di non far cucire il tricolore al petto degli odiati cugini. 12 Maggio è anche un libro di cugini e amici fraterni convertiti alla lazialità, come l’ex juventino Gianluca, che spendeva la paghetta settimanale comprando sciarpe e cappelli fuori dallo stadio come fossero ex voto dando così «prova della nuova fede, gli apostati sono sempre i fedeli più fanatici». Grazie a questo libro ho rivissuto l’emozione di entrare all’Olimpico assieme agli amici e i compagni di Liceo. Noi armati solo di panini con la frittata (alternativa la cotoletta cotta all’alba dalle nostre sante madri). Con una vecchia 126 si andava in trasferta con alla guida mio padre, juventino di nascita, ma laziale per amore del figlio unico, pronto a sbarcare a Cesena o a Firenze, come ad Ascoli per assecondare quella grande illusione che faceva parte di un inconsapevole processo educativo. Seguendo la Lazio, abbiamo dribblato i pericoli della strada e imparato in maniera spontanea il valore della convivenza civile, che cominciava con il saper stare assieme ai figli dei baraccati, come con quelli della ricca borghesia che già facevano le prove tecniche di conquista di tutti gli spazi di potere, con o senza tangente.

Quegli 11 piccoli eroi esemplari

Io e Guy grazie alla Lazio non siamo finiti nel buco nero della dipendenza dalle droghe che ha sterminato ragazzi e ragazze nostri coetanei, in provincia come in quella Roma ostaggio di spacciatori e terroristi, della malapo-litica e anche di quella malasanità che rifiutava ricoveri al cantautore morente, Rino Gaetano. E noi Rino lo ricordiamo ancora, ogni domenica, con il suo inno di speranza: Ma il cielo è sempre più blu. Il cielo era di un blu immenso quel 12 maggio del ’74, e noi c’eravamo già, ma non riusciamo a metterlo a fuoco, se non scrivendone. L’abbiamo immaginato assieme ai suoi 11 protagonisti in campo, come si fa con gli eroi dell’epica. Una banda di pistoleri divisa in due clan, con due spogliatoi distinti a Tor di Quinto durante la settimana, ma un’anima sola, unita e compatta, alla domenica. Quei piccoli eroi esemplari della nostra gioventù li abbiamo studiati e ripassati sugli album Panini, fotografati con gli occhi e con la memoria, per poi conoscerli e intervistarli, uno per uno, fino a farli diventare degli oracoli perenni e familiari. Felice (Pulici), Sergio (Petrelli), Gigi (Martini) Pino (Wilson), Giancarlo (Oddi), Franco (Nanni), Renzo (Garlaschelli), Cecco (Re Cecconi), Giorgio (Chinaglia) Mario (Frustalupi) e Vincenzino (D’Amico). Conservo ricordi nitidi di incontri emozionanti: tipo tra le nebbie di Vidigulfo con Garlaschelli al bar sport con i suoi amici di sempre. Ma soprattutto ricordo le strette di mano calorose con quelli che non ci sono più. Pulici lo incontrai in veste di ct della Nazionale sordomuti. In uno spoon river vissuto con quel gran signore di Massimo Maestrelli (gemello di Maurizio, le “mascotte” dello scudetto) alla tomba del padre, Tommaso, ho ritrovato i due leader, Pino Wilson e Giorgio Chinaglia che riposano per sempre con il loro amato Mister. Mario Frustalupi lo ritrovo ogni volta che passo da Orvieto e penso a quel “figlio del boscaiolo” che all’Inter scambiavano per l’altro Mariolino (Corso) ma lo bocciarono e con tutti gli altri “scartati” andò a formare la Lazio dello scudetto. Cecco “Re Cecconi” l’ho rivisto vivo e biondo nel libro capolavoro di Carlo D’Amicis ( Ho visto un Re. Luciano Re Cecconi, l’eroe biancoazzurro che giocava alla morte ed è morto per gioco - Limina -) e poi nel tentativo d’inchiesta, su queste pagine, per dare una risposta al mistero quasi trentennale della sua finete assurda (freddato a 29 anni per uno scherzo, una finta rapina a un gioielliere). Infine Vincenzino D’Amico, volato via per sempre una sera d’estate mentre ero su un palco, a Potenza, con il presidente della Figc Gravina e il cardinal Gambetti a parlare dei “valori del calcio” e non ho fatto in tempo a scrivere che il suo valore, per fantasia e umanità, era inestimabile.

Rivincere non è mai come la prima volta

Quando abbiamo rivinto lo scudetto, nel 2000, a me non è passata tutta la vita davanti come a Chiappaventi. Ero al Curi che già e seguivo per lavoro Perugia-Juventus. La partita del diluvio e dello “scandaloso Collina” (voce juventina) che poi a fine carriera confessò di essere tifoso laziale. Scrissi di quella partita ed esultavo per la mia Lazio, ma senza esagerare, anche per rispetto di mio padre juventino. Il Perugia di Mazzone e di Calori aveva colpito e affondato la Juve di Zidane e di Ancelotti che fu maledetto e cacciato per questo, salvo poi diventare l’allenatore più vincente del mondo. Ma una volta che hai vinto poi «si scioglie l’incantesimo. Dopo aver vinto bisognerebbe smettere. Non sarà mai più come la prima volta. Quando una cosa l’hai fatta è finita», scrive Chiappaventi. E quella strana sensazione di finitudine io l’ho provata, così come scavallando le cinquanta primavere comprendo e mi ritrovo nel suo «bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza. Ho imparato che la mediazione è un’arte. Questo non vuol dire che io riesca sempre a praticarla». Per noi la Lazio sarà sempre quella di quando eravamo ragazzi e inseguivamo il mito dei ragazzi del ’74 che fecero l’impresa. Quando ho accompagnato Massimo Maestrelli alla tomba del padre ho pensato a cosa sarebbe accaduto se un giorno avessi perso un genitore. Beh è successo. Quel padre che mi portava per mano allo stadio se ne è andato con la leggerezza di una sua risata un anno fa, ma è molto di più quello che mi ha lasciato rispetto a ciò che ho perso. E allora caro Guy forse io il significato l’ho trovato, e il tuo libro ha confermato la mia unica certezza: non c’è nulla di più bello, dal seguire una squadra a inseguire un sogno nella vita che farlo con tutto l’amore che portiamo dentro.