Agorà

IL CASO. Un Wiesenthal contro Ceausescu

Daniele Zappalà martedì 26 ottobre 2010
In Romania, il nome Securitate può ancora raffreddare all’istante ogni conversazione. Sul numero esatto di vittime dell’ex polizia segreta, la più estesa del blocco comunista se rapportata alla popolazione nazionale, ci sono solo stime. Di fatto, a differenza di quanto accaduto a Berlino con la Stasi, gli archivi rumeni della Securitate non sono ancora del tutto accessibili, secondo gli studiosi che tentano di visitarli. Vent’anni dopo il rovesciamento tumultuoso e memorabile del "genio dei Carpazi", l’oscuro dittatore Nicolae Ceausescu, tanti dolorosi tasselli della recente storia rumena tardano a giungere sotto la lente degli storici. E fra questi ultimi, c’è chi denuncia apertamente le residue "reticenze" verso il passato di una parte delle autorità. Chi invoca tutta la verità sugli eccidi della Securitate confida soprattutto nel lavoro di un giovane organismo: l’Istituto d’investigazione sui crimini del comunismo, creato nel 2005 grazie all’ostinazione di Marius Oprea, uno studioso che ha ben presto dirottato verso il presente le proprie competenze di archeologo, traendo ispirazione dal lavoro dell’Istituto della memoria polacco e del Centro Wiesenthal sulla Shoah, negli Stati Uniti. Ricostruire la cartografia e cronologia dei massacri comunisti pare un’impresa immane. Tanto più che l’istituto di Oprea può contare appena su una trentina di effettivi, stipendiati grazie a fluttuanti fondi di Stato o legati a donazioni provenienti perlopiù da Germania e Stati Uniti. In pochi anni, l’"archeologo politico" ha nondimeno affinato il proprio metodo di ricerca, raccogliendo tutta la documentazione disponibile e organizzando al contempo spedizioni sul campo nelle presunte aree degli eccidi. Presto, i risultati di questi sforzi sono tornati alla luce a decine in tutta la loro macabra evidenza. Presso il villaggio di Teregova, nel cuore della Transilvania, l’archeologo ha ad esempio localizzato di recente la fossa in cui venne occultato il corpo di un militante anticomunista trucidato nel lontano 1949. In questo caso, il ritrovamento non ha contribuito solo alla causa della verità storica. I resti del martire sono stati infatti restituiti alla figlia, testimone sessant’anni fa dell’esecuzione. A distanza di un’epoca, il lutto di una donna ha potuto trovare così un tardivo sollievo. La squadra di Oprea ha già scoperto decine di fosse analoghe. Ma nei cantoni più disparati della Romania, strangolata per decenni da uno degli apparati totalitari più oppressivi della storia, sarebbero almeno diecimila i cadaveri di vittime della Securitate che attendono ancora degna sepoltura. Si tratta di una stima accreditata dallo stesso Oprea, ma destinata probabilmente a evolvere nel tempo. Ogni bilancio è infatti complicato dall’area estremamente vasta degli eccidi, così come dalla durata nel tempo della recrudescenza sanguinaria. Le squadre della morte entrarono in azione in Romania fin dal 1947, con l’insediamento della neonata "repubblica popolare". L’obiettivo di stanare e annientare ogni tentativo di dissidenza, o presunto tale, venne perseguito sistematicamente dal regime. E la Securitate, ad esempio, riuscì a reprimere ogni tentativo di costituzione di sindacati indipendenti dal regime. Per anni, gli agenti seminarono il terrore fin nelle aree più ritirate dell’entroterra montuoso, dove i militanti anticomunisti avevano spesso trovato rifugio. Luoghi proprio come Teregova, dove nella memoria e nella coscienza degli anziani restano impresse scene terribili. Oprea è consapevole dei limiti del suo lavoro di pioniere. Ma l’archeologo si è fissato almeno lo scopo di dare l’esempio aprendo l’immane cantiere, convinto che la Romania non potrà schivare ancora a lungo in futuro l’appuntamento con le pagine più nere della propria storia recente. L’archeologo suole ripetere che, così come avvenne per la Shoah, pure i crimini del comunismo saranno pienamente scandagliati e compresi a una generazione di distanza dalla fine dell’incubo. In altri termini, secondo quest’ipotesi, vent’anni sono appena bastati per cominciare a fugare gli effetti deleteri dei vecchi muri di menzogne. Per ora, i rinvenimenti di Oprea non hanno messo davvero in moto la macchina giudiziaria, ma l’archeologo non elude neppure questo fronte, nonostante tutte le difficoltà e i rischi impliciti nel tentativo d’identificare dei responsabili. Nel 1989, sostiene in ogni caso Oprea, ci fu anche chi impugnò le bandiere della nuova "rivoluzione" con le mani ancora sporche del sangue versato negli anni precedenti. Il "cacciatore sulle orme della Securitate", come ormai lo chiamano, dichiara che non abbandonerà mai la sua causa. Dietro il suo impegno, c’è anche un drammatico movente personale. Fu un sicario della Securitate a uccidere il padre dell’archeologo durante la convulsa fase della transizione. Sceso da allora anche nell’arena politica al fianco dei liberali, Oprea conduce una parallela battaglia molto personale contro quanto resta oggi in Romania, sotto mentite spoglie, dei vecchi schemi. Chi soprattutto dall’estero sostiene la causa dell’archeologo non ha dubbi sul fatto che un simile impegno di ricerca travalica gli odierni steccati politici di partito. Così come le frontiere, dato che la piena comprensione dei misfatti comunisti avrà pesanti ripercussioni sul futuro stesso dell’Unione europea.  Accolte oggi ufficialmente sotto la bandiera blu stellata della nuova Europa, tante contrade rumene non dimenticano per questo i cumuli di ossa lasciati dai demoni politici del passato. In mezzo ai Carpazi ormai liberati dal proprio "genio" più cupo ma non dai ricordi dell’orrore, a Teregova e in decine di altri villaggi, c’è ancora chi avrebbe molto da raccontare. Spesso, attende solo che qualcuno arrivi un giorno per capire.