Letteratura. La gioventù inquieta del romeno Sebastian
Una veduta di Bucarest ai primi del Novecento
È una storia di adolescenti che diventano adulti, di scoperta dell’amore, quello erotico e quello per i libri e per la musica a percorrere La città della acacie, romanzo scritto nel 1935 da Mihail Sebastian, autore importante non solo ai suoi tempi e per la cultura del suo paese, la Romania, ma riconosciuto ormai come testimone di una stagione dell’Europa segnata dai totalitarismi e dalla persecuzione degli ebrei. Nel 1996, infatti, è stato pubblicato per la prima volta in Romania il suo diario, tenuto negli anni cruciali dal 1935 al 1944. Subito tradotto in molte lingue (non ancora in italiano), l’autore vi registra i fatti con l’animo travagliato di un ebreo marginalizzato dalla società. In pagine che il conterraneo scrittore Norman Manea, anch’egli ebreo, ha paragonato a quelle vergate sotto il nazismo dal filologo Viktor Klemperer.
Nato nel 1907 nella città portuale danubiana di Braila e morto investito da un camion a Bucarest nel 1945, Mihail Sebastian (pseudonimo di Iosif Hechter) è stato poeta, giornalista, saggista, critico letterario, teatrale e musicale, ma soprattutto scrittore di romanzi e commedie. Il romanzo che l’editore Besa Muci pubblica ora nella traduzione di Alina Monica Turlea (pagine 230, euro 16,00), è caratterizzato dalle stesse atmosfere trattenute e rarefatte, con personaggi tormentati, chiusi in sé, presenti in altre sue opere narrative, come L’incidente, pubblicato nel 1940 e apparso in Italia nel 1945. Adriana Dunea, la protagonista de La città delle acacie, all’inizio della storia ha 15 anni ed è alle prese con la sua prima mestruazione. Evento che, ribattezzato in codice come “fioritura delle acacie” – piante che caratterizzano i viali di D., l’anonima cittadina dove la storia si svolge - segnerà uno spartiacque tra lei e quelle compagne di scuola, ancora bambine, che non capiscono il segnale. Per inciso, le pagine in cui Sebastian è alle prese con scene relative alla sessualità rivelano la sua maestria nella scrittura: una prosa mutuata dai francesi che amava, su tutti Marcel Proust e Jules Renard. Non è un caso che, come molti romeni, Sebastian guardasse a Parigi, dove ha vissuto tra la fine degli anni Venti e e l’inizio dei Trenta e dove ha concepito molte sue opere.
Adriana si lega a Gelu, che fa parte di una comitiva di ragazzi un po’ scapestrati: rumoreggiano per strada e si divertono a interrompere spettacoli e conferenze. L’amore per la lettura avvicina i due a un’altra coppia di adolescenti, Victor e Cecilia. Adriana, che studia pianoforte, introduce nel gruppo le Canzoni per la bionda Agnes, romanze scritte da un musicista emergente, tal Cello Viorin, pseudonimo dietro il quale si nasconde un giovane che ha lasciato tempo prima D. e sul quale nessuno avrebbe scommesso. Quelle melodie fanno da colonna sonora alla doppia relazione, ma allo stesso tempo, interviene il narratore, «sembravano riflettere l’indecisione della loro amicizia. Vi erano tante cose inspiegabili tra loro quattro! Che cosa li teneva uniti pur essendo così diversi? Perché quando si incontravano avevano la sensazione di nascondersi e, quando si separavano, di perdersi?». Adriana a Bucarest ritrova per caso Cello e lui si invaghisce di lei. Fatto che, pur ignoto a Gelu, incrina ancor di più il rapporto tra i fidanzati, che già conosceva alti e bassi. Alla fine, sono passati alcuni anni, ognuno va per la sua strada. Gelu, carattere inquieto, prosegue gli studi. Adriana, ormai matura, si appresta ad accettare una proposta di matrimonio (nonostante quelli di parenti e amiche siano falliti o diventati stanca routine). Cello conosce un nuovo slancio creativo. Ma c’è un’altra figura alla quale bisogna accennare: Buta.
Questi è il capetto della marmaglia chiassosa. Un personaggio rozzo che viene presto emarginato. Poi riemerge con il suo sogno irrealistico di trovare un metodo matematico per vincere alla roulette. E alla fine viene arruolato a forza dentro una divisa verde (il colore del legionarismo). È l’unico che si avvicina alla descrizione degli “huligani”, quei giovani ribelli, generazione senza riferimenti, formatasi tra le due guerre e poi finita in braccio al fascismo, che in Romania ebbe il volto della Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu. Il romanzo, come detto, vi accenna vagamente. Ma fu un ambiente che Sebastian conobbe bene. E ne scrisse in quello che è forse il suo romanzo più celebre Da duemila anni (tradotto da Fazi nel 2018). Scritto nel 1934 generò una feroce polemica. La cui genesi risale al rapporto di lunga data con il concittadino Nae Ionescu, controverso pensatore nazionalista e religioso. Tramite lui Sebastian aveva scritto sulla rivista Cuvântul (“La parola”), alla quale collaboravano pure Emile Cioran e Mircea Eliade, con il quale Sebastian strinse un’amicizia, intensificatasi nell’associazione “Criterion”,che si ruppe nel 1937.
Quando il romanzo, in cui Sebastian narrava delle discriminazioni subite all’Università, stava per uscire, l’autore ebbe la malaugurata idea di chiedere la prefazione a Ionescu. Il quale la infarcì di stereotipi antisemiti. Pressato dalle critiche, Sebastian dovette correre ai ripari, scrivendo un pamphlet di autogiustificazione, Come sono diventato huligano.
Dieci anni dopo, nel 1944, la discriminazione, ormai divenuta legge, lo costrinse a ricorrere a un altro pseudonimo, Victor Mincu, per mettere in scena la commedia Stella senza nome, da cui nel 1966 fu tratto un film. Anche questa rappresentazione divenne un caso perché la stampa si mise sulle tracce del vero autore e servì uno stratagemma per salvare registi e troupe dall’accusa di aver favorito un ebreo. Un anno dopo, nella Bucarest ormai in mano sovietica, l’incidente fatale per lo scrittore, investito mentre andava all’Università a tenere una conferenza su Balzac. Commedia sì, ma umana.