Agorà

POPOLI. «Rom, da sfatare tanti luoghi comuni»

Giovanni Ruggiero giovedì 17 febbraio 2011
Dei rom e dei sinti (non chia­miamoli zingari) abbiamo da sempre due opinioni, en­trambe sbagliate: tutti straccioni, oppure intrisi di colore romantico. Pensate al rossiniano «stuol di zin­garelle» del Turco in Italia. Un com­piacimento che affiora ancora di tanto in tanto. Prevale, però, la vi­sione degli zingari «brutti, sporchi e cattivi» che a Pino Petruzzelli, atto­re e regista, direttore del centro tea­tro Ipotesi di Genova, non piace. Pe­truzzelli ha così deciso, diversi an­ni fa, di mettersi sulla strada dei rom per capirli. Per anni ha visitato i lo­ro campi, ha stretto loro la mano, e ne ha raccolto le storie. Tutto è fini­to in Non chiamarmi zingaro, edi­to da Chiarelettere (pagine 228, eu­ro 12,60), che è il taccuino vivido e appassionato di questo singolare viaggio.Cosa l’ha spinto a questo nomadi­smo culturale?«Mi sembrava interessante capire come mai di questo popolo si co­nosca soltanto una sfaccettatura ne­gativa: i furti, il nomadismo... Ho vo­luto comprendere cosa c’è dietro, partendo da una frase di Eduardo De Filippo. Diceva: 'Un uomo vivo non ruba per morire, ma ruba per vivere'. Me ne sono occupato per circa cinque anni, girando l’Italia e l’Europa, per conoscere questo mondo così sconosciuto. In libreria c’era e c’è ancora poco, se non qual­cosa per gli addetti ai lavori. E gi­rando ho scoperto tante cose».Chi sono, allora, gli zingari?«Un popolo né migliore né peggiore di tutti gli altri popoli che colorano questo nostro mondo. Hanno pro­blemi con cui devono confrontarsi quotidianamente. Vivere in un cam­po, per i sinti o per i rom italiani, non è semplice. Non è un campeggio, vi­vere venti anni in situazioni così e­streme è drammatico. In Italia c’è il grande equivoco che i rom siano no­madi geneticamente, e infatti siamo l’unica nazione al mondo che ha messo in piedi i campi nomadi. In tutto il resto del mondo vivono in ap­partamenti, e solo se sono estrema­mente poveri finiscono in una ba­racca, come finiscono così anche i non rom poveri delle periferie delle grandi metropoli. Forse anche in buona fede si è pensato così. Negli anni ’70 si diceva: sono nomadi, quindi, facciamo un campo per lo­ro... ».È la condizione di disagio in cui vi­vono che crea la diversità...«Sicuramente. I rom hanno una sto­ria molto simile a quella del popolo ebraico, ma nessuno si sognerebbe di dire che un ebreo è un nomade. Invece, nel caso degli zingari, una sto­ria di continue persecuzioni ha crea­to il nomadismo, a iniziare dal Cin­quecento quando – mi riferisco alla Serenissima – si poteva uccidere uno zingaro senza scontare alcuna pena».I rom entrano nella storia, ma quel­la degli altri. Sembra un popolo sen­za storia: non ha avuto la possibilità di scriverla?«Hanno una storia tramandata in maniera orale. La nostra è una cultura che ha scritto, così sappiamo soltan­to quello che noi abbiamo scritto di loro. Oggi sarebbe importante cono­scere meglio questa loro storia e la loro cultura per provare a vivere in­sieme nel rispetto di regole recipro­che. Su questo dovremmo lavorare tutti, e naturalmente anche i rom».Lei non è zingaro. Usando una loro espressione è un gagé. Non crede che la parola sia discriminante al­meno quanto la parola zingaro? C’è anche da parte loro una forma di di­scriminazione? «Gagé è l’equivalente del nostro zin­garo. Effettivamente racchiude tutto ciò che non va bene, in un’accezione abbastanza negativa».Da dove nasce il solco tra noi e loro, o, se preferisce, tra loro e noi gagé?«Le radici sono nel Cinquecento. Il fatto che si spostassero ha creato grossi problemi. La nostra società in­vece si fa sedentaria, sicché loro, con i continui spostamenti, rappresenta­no un problema. Le persecuzioni i­niziano proprio in questo periodo. Vivono in un continuo terrore verso il mondo gagé. Nutrono la stessa pau­ra nei nostri confronti. E hanno an­che buone ragioni per temerci. Guardando indietro nella storia, gliene ab­biamo fatte di tutti i colori: da ultimo i campi di sterminio nazisti in cui so­no morti a migliaia».Prenda De André: «Con le vene cele­ste dei polsi anche oggi si va a cari­tare». È il verso di una sua bella can­zone. Non crede però che continui ad offrire un’immagine romantica del mondo rom? Caritare rientra nel­la cultura?«No, certo, ma caritare è ben diverso da rubare. Anche il furto va capito. Chi pensa che sia facile per un gio­vane rom trovare un lavoro anche da cameriere in un bar sbaglia. Diventa difficile venir fuori da una situazione complicata, come un campo rom. Ciò non giustifica il furto, è solo un voler capire cosa c’è dietro».Lei, nel suo nomadismo culturale, ha incontrato tanta gente che si è inte­grata. Come è possibile l’integrazione?«In Italia ci sono tantissimi rom e sin­ti che ci sono riusciti, nascondendo però la loro origine, per non essere discriminati. L’integrazione comin­cia con i bambini, e nelle scuole i bambini rom e gagé giocano tra loro. Scuola però non significa entrare in un campo e imporla. Va capito un meccanismo: agli occhi di una so­cietà in cui il padre rappresenta la massima autorità, l’imposizione del­la scuola va a minare questo suo pre­stigio. Un approccio sbagliato ha sol­tanto un risultato: quel bambino non dovrà andare a scuola. Non si può da elefanti entrare in una vetreria. In molti, comunque, frequentano la no­stra scuola. In tanti la lasceranno do­po le medie, ma questo avviene an­che tra i ragazzi... gagé».Lei, da autore di teatro, ha preso qualcosa dai rom?«Il mio lavoro è nomade: stare qui e domani là, oppure prendere da que­sto o da quell’autore. Ho imparato che il bello di tutti i lavori sta nel far­li. Nell’arte conta più la persona, l’au­tore dell’opera, che il risultato finale. Questo a me piace: è un rispetto del­l’essere umano, perché non tutti i musicisti e i commediografi divente­ranno Mozart o Shakespeare. Però hanno vissuto come se lo fossero. Gli zingari la pensano così».