Reportage. Brasile, i bambini salvati dal RING
Sulla Cidade Maravilhosasi sono appena spenti i riflettori dello sport internazionale, dopo le Olimpiadi chiuse anche le Paralimpiadi. Ora si torna alla Rio di sempre, quella della multiforme complessità di una nazione i cui capisaldi fissati già nella bandiera, ordem e progresso, appaiono a tratti sinistri: l’ordine, quello imposto in casi non infrequenti nella sua accezione più repressiva, è per pochi, figurarsi lo sviluppo. Inutile poi dire che coloro che intercettano il progresso non sono quelli che subiscono l’ordem.
Come Rio, così il Brasile. L’altro Brasile, nemmeno sfiorato dai Giochi, quello in cui lo sport è fatto di storie su cui i riflettori non si accendono mai, o quasi, ma che svolgono funzioni sociali ben più significative rispetto al fascino patinato e, a tratti, artefatto dei Giochi. L’altro Brasile è quello di Breno Macedo, ad esempio, che a Rio Claro, duecento chilometri all’interno dello Stato di San Paolo, prosegue nella sua missione sportiva.
Che non è, necessariamente, quella di produrre campioni, ma dare a centinaia di ragazzi un’alternativa, «perché se non c’è qualcosa di diverso, la scelta è quella della malavita».
Una storia come tante, ma a suo modo esemplare proprio perché portata avanti quasi nell’ombra. Breno - anch’egli un ragazzo, perché di anni ne ha 27 ma ha cominciato questa missione giovanissimo - lo fa attraverso la boxe: Rio Claro ha 200 mila abitanti, in scala contiene gran parte delle contraddizioni e dei problemi delle città brasiliane, ed è lì che, dopo essersi trasferito con la famiglia, assieme al padre istruttore di boxe e al fratello maggiore ha aperto in uno dei quartieri disagiati della municipalità una palestra di pugilato. “MM Boxe” si chiama, Macedo e Macedos, cioè padre e figli: «Senza soldi, ma con lavoro e amore. Dove ora c’è la palestra, anni fa c’era solo degrado: era una proprietà comunale ritenuta senza alcuna importanza, un edificio vecchio di cent’anni e abbandonato. I ragazzi andavano lì a “farsi”. Un capannone di 100 metri quadrati, la palestra sta in trenta, e se li fa bastare, perché il luogo, recuperato, nel resto dello spazio ospita la filarmonica dei ferrovieri. «C’era la droga, noi ci abbiamo messo la vita».
La vita che è tirare pugni, certo, ma per sport, e non con la vita stessa, la propria, a fare da sparring partner. Lo abbiamo incontrato a Bologna, Breno Macedo, dove con mille sforzi organizzativi, grazie all’intermediazione della polisportiva Palmeiras e alla collaborazione di alcune palestre popolari di Roma, della città emiliana e di Genova che hanno fornito vitto e alloggio, aveva portato una decina di suoi ragazze e ragazzi per un paio di settimane, in una sorta di gemellaggio tra periferie, con la noble art a fare da filo conduttore. Inutile dire che, per quasi tutti i suoi ragazzi, era la prima volta fuori da Rio Claro: «Ho visto le periferie italiane, mi sono state raccontate diverse situazioni di disagio causate dalle disuguaglianze sociali, ho sentito paragonare alcune zone alle nostre favelas.
Non è la stessa cosa, davvero: tutte le città del Brasile hanno quartieri poverissimi e tutte hanno le favelas, ma chi non le ha visitate non le può nemmeno immaginare. Pensate a ciò che considerate molto povero, pensate a ciò che può esserlo ancora di più e aggiungete la violenza. Al di là di quello che mostreranno le Olimpiadi, il Brasile è un paese in cui ci sono problemi sociali da Terzo Mondo, in cui il razzismo è altissimo e in certe zone delle città il sospetto è padrone. 400 anni di schiavitù e sfruttamento non si cancellano in poche decine d’anni». Sono ambienti psicologicamente difficili, in cui è facile rassegnarsi e farsi prendere da rabbia e disperazione che portano alla violenza. «Si dice, in Brasile, che prima si spara, poi si fanno domande. Questa è la quotidianità ».
Cita, ad esempio, il caso Amarildo, un uomo scomparso nel 2013 dalla favela della Rocinha, a Rio - dopo un interrogatorio da parte della polizia speciale (la UPP) in servizio nelle favelas - e mai più ritrovato. Un caso dalla eco internazionale, che ha portato alla luce per la prima volta al di fuori del Brasile l’abuso di autorità e violenza da parte di alcuni corpi di polizia. È per questo che la famiglia Macedo ha aperto la palestra, per riuscire magari a togliere qualcuno dalla strada, perché anche Rio Claro ha la sua favela, quella di Murão da Fepasa. «Quella di certi ragazzi, purtroppo, è una vita vuota.
Quello brasiliano è un popolo fondamentalmente buono d’animo, ma se il tuo mondo è la favela, conta chi uccide chi, chi ha più soldi, contano violenza e risse. Le più grandi soddisfazioni, per noi, sono le madri e i padri dei ragazzi che vengono in palestra a ringraziarci per ciò che stiamo facendo». Senza chiedere nulla in cambio, o comunque molto poco. «Nel nostro progetto sociale, chi può farlo paga, chi non può permetterselo lo alleniamo gratis, come facciamo anche con i bambini del quartiere. Il nostro orgoglio è questo, e in fondo speriamo di avere piantato un seme: se un giorno questi ragazzi faranno iniziative simili per altri, significherà avere cambiato un po’ le cose, avere dato a qualcuno un’opportunità». E, se è vero che non sempre si riesce nell’intento, perché un’occasione non è sempre garanzia di redenzione, è altrettanto vero che quei grazie, quegli obrigado, valgono tutto l’oro del mondo.
Poi magari succede che dalla strada spunti fuori anche qualche talento, destinato a diventare campione o vice campione nazionale a livello giovanile o assoluto. Tre nomi sparsi: Jucielen Cerqueira Romeu, Caique Silvano e Jhonatan Conceição. Chissà, forse un giorno qualche ragazzo salvato dalla “MM boxe” di Rio Claro finirà davvero alle Olimpiadi. Quel giorno, i riflettori si accenderanno anche per lui».