È un duplice evento. E anche due riabilitazioni, sempre che ne avessero bisogno un’opera come la mozartiana Clemenza di Tito e un teatro prestigioso come il San Carlo. Semmai, un ritorno all’antico, soprattutto per l’opera che proprio a Napoli, due secoli fa, ebbe la prima esecuzione italiana. Per quanto riguarda il teatro, si tratta in realtà di un ritorno al passato solo nel senso che esso ora è fresco e scintillante come all’inizio della sua storia. Eppure è adesso anche il teatro più moderno, perché dispone ad esempio del palcoscenico più evoluto dal punto di vista tecnologico.Quella di domani sera, dunque, con la "prima" di una nuova
Clemenza di Tito, e con gli abiti da sera, i riflettori e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano nel palco centrale, non sarà la solita, stereotipata, apertura di stagione, ma un vero evento. «Abbiamo lavorato giorno e notte per 330 giorni, due tranche di lavori tra il 2008 e il 2009» sottolinea il commissario straordinario Salvatore Nastasi illustrando il restyling compiuto. «Un restauro in tempi record, unici nel nostro Paese» gli fa eco il presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino. «Ora il San Carlo è tra i teatri più moderni e competitivi, grande ambasciatore di Napoli nel mondo» aggiunge, a mo’ di riscatto dopo la figuraccia mondiale della monnezza. L’architetto Elisabetta Fabbri, direttore del restyling, rimarca poi come per la Scala siano stati impiegati 930 giorni di lavoro e per la Fenice 630, «ed erano teatri chiusi per tutto quel periodo. Noi non abbiamo chiuso». Costato 65 milioni di euro e finanziato dalla Regione con fondi europei, il restauro ha riguardato in buona parte il grande palcoscenico. Fra le quinte si respira ora un’aria nuova: nella sala-regia si compiono tutte le operazioni, dalle più semplici come sipario o luci a quelle complesse come i cambiamenti delle scene. Ora le più ingombranti si possono spostare in pochi secondi usando ottanta motori. Nella
Clemenza (l’altra sera abbiamo assistito alla prova generale), durante l’incendio che i congiurati appiccano al palazzo dell’imperatore, viene giù l’intera parete di un enorme palazzo: e ciò grazie ai cavi comandati da uno di questi motori. Ben cinque ponti mobili, poi, consentono di cambiare l’inclinazione del piano di scena: operazione impossibile in passato. Le vecchie attrezzerie, antidiluviane di nome e di fatto, i tiri delle funi, la graticcia, i sottopalchi di legno non finiranno in soffitta ma faranno parte del museo del teatro.Il clima solenne che si respira in questa vigilia d’inaugurazione è poi amplificato dalla scelta di un’opera degna della grandezza di Mozart, eppure da molti e per molto tempo addirittura giudicata discutibile, forse perché non si considerava che la sua semplicità era sinonimo di purezza, di trasparenza e non una scorciatoia espressiva. E la semplicità è, in questo caso, al San Carlo, la chiave di lettura sia della direzione di Jeffrey Tate che della regia di Luca Ronconi (il suo è il debutto sulla scena lirica partenopea). Poco aiutato però da Margherita Palli, con una scena fissa, dominata da un enorme, piatto, palazzo con dei buchi quadrati per finestre che non è né Roma antica né il Settecento di Mozart. Impeccabile Tate sul podio, incisivo e coerente nei tempi ed equilibrato nelle sonorità. Come equilibrato è stato il cast vocale, con qualche punta di merito per il Tito di Gregory Kunde, un po’ anonimo solo nei recitativi, e per il Sesto di Monica Bocelli che esibisce grinta e dolcezza al tempo stesso. Ma bene anche gli altri, che sono Teresa Romano, Elena Monti, Vito Priante e Francesca Russo Ermolli.