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Squadra dei rifugiati. In fuga dall'Iran, il sogno di Hadi e Iman si avvera in Italia

Massimiliano Castellani, inviato a Parigi giovedì 8 agosto 2024

Il 29enne lottatore Iman Mahdavi insieme con il suo allenatore Marco Moroni

Hadi e Iman avevano 14 e 21 anni quando a Rio 2016 sono stati ammessi in gara gli atleti rifugiati. Loro ancora non c’erano, ma sognavano già i Giochi aperti a tutti gli uomini e alle donne che fuggono dalle guerre e dagli orridi regimi totalitari. E da Rio, almeno con il loro ingresso, i Giochi sono diventati più umani.

Anche per questo la rappresentativa si è allargata: partita da Rio con 10 atleti a Tokyo sono saliti a 29, fino ai 36 di Parigi. Qui al Villaggio Olimpico sono 24 uomini e 12 donne sotto l’egida della bandiera che rappresenta gli oltre 117 milioni di persone costrette a fuggire in tutto il mondo. Un esodo senza fine che ha messo in fuga 10 milioni di persone in più rispetto al 2022 (dati Unhcr). I 36 rifugiati olimpici provengono da 11 Paesi e sono stati ospitati da 15 comitati olimpici nazionali.

Qualificati in dodici discipline (atletica, badminton, pugilato, canoa, ciclismo, judo, tiro a segno, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta). Il capo missione è una ragazza, l’afghana Masomah Ali Zada, una abituata ad andare in fuga nel ciclismo e nel suo paese è stata costretta a farlo nel 2016 per non finire prigioniera dei talebani. Prima medaglia di un’atleta rifugiata è arrivata domenica sera, la pugile Cindy Ngamba, bronzo nella categoria 75 kg. E ora tocca ai primi due atleti portati dall’Italia. Due iraniani, il 22enne del taekwondo Hadi Tiranvalipour e il 29enne lottatore Iman Mahdavi. Hadi a Parigi è seguito dal coach Leonardo Basile, ma tutta la preparazione l’ha fatta con la Nazionale di taekwondo del ct Claudio Nolano. Ma la sua fortuna di uomo in fuga è stata trovare subito riparo e le porte aperte del centro federale di taekwondo.

Il 22enne del taekwondo Hadi - Ansa

E ad accoglierlo a Roma è stato il presidente della Federazione di taekwondo Angelo Cito. «Hadi venne con un suo amico chiedendomi se si poteva allenare come praticante. Mi raccontò la sua storia di giovane proveniente da una famiglia borghese - ma appena arrivato dormiva in un parco della capitale e poi per tre mesi in una casa con altre dieci persone - e rimasi molto colpito dal fatto che oltre ad essere un atleta importante della nazionale iraniana lavorava anche in tv come conduttore in una trasmissione in cui trattava e denunciava problemi sociali». La denuncia in diretta del trattamento delle donne in Iran e della necessità di una nuova politica per la parità dei diritti l’hanno condannato a una fatwa che non gli consente il ritorno in patria. Roma ora è la sua patria. Adi si è iscritto alla facoltà di Scienze Motorie di Tor Vergata e poi ha fatto due richieste: l’asilo politico e la possibilità di gareggiare per inseguire il sogno olimpico. «Noi lo abbiamo accolto seguendo quello che è il nostro piano di accoglienza e di aiuto che abbiamo avviato otto anni fa in Giordania dove siamo presenti con una nostra palestra nel campo profughi più grande di quel paese. Il nostro messaggio allo sport e al Paese tutto, è che bisogna sporcarsi le mani quando si parla di solidarietà e di inclusione», continua il presidente Cito. La forza inclusiva del taekwondo italiano si era già distinta con altri atleti in fuga dalla guerra: sei ragazzi juniores ucraini che per mesi hanno fatto da sparring partners agli azzurri e nel frattempo sono diventati senior. Gli ucraini ai Giochi non ci sono, Hadi sì e grazie all’interessamento prezioso del Ministro dello Sport Andrea Abodi che in poco gli ha fatto riconoscere lo status di asilo politico. Una borsa di studio del Cio gli ha permesso di affrontare un quotidiano che è fatto di università e allenamenti. Ieri tutti gli azzurri del taekwondo erano al fianco di Hadi in un match che, ironia della sorte lo ha visto opposto a un atleta non rifugiato ma anche lui momentaneamente in “fuga” dalla guerra, il palestinese Yaser Ismail. Hadi ha perso, ma il sogno continua: «Sarà per i prossimi Giochi».

Dalla Roma di Hadi a Milano, da dove è partito l’altro sogno olimpico di Iman. Dopo un viaggio di 2mila chilometri dal suo villaggio, “una terra di lottatori” è approdato a Istanbul e da lì tre anni fa, dopo mille peripezie, a Milano ospite della comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Ma fondamentale è stato il sostegno dell’Asd Lotta Club Seggiano di Pioltello. La società sportiva del presidente Giuseppe Gammarota che alla vigilia del debutto olimpico di Iman dice con orgoglio: «È un traguardo che abbiamo raggiunto insieme». Quell’ “insieme” sta per lo storico allenatore Marco Moroni. «L’uomo più generoso che conosco, oltre a farmi entrare in palestra ha dato anche una casa a Monza. Per tutti noi lottatori è un papà», dice Victor Cazacu, 49enne moldavo ed ex nazionale di lotta sotto la bandiera russa, che a Parigi è il coach di Iman al posto di Moroni che è rimasto a Milano. Iman dopo aver vinto la Coppa Italia a Napoli nella categoria 74 kg si è allenato con l’azzurro Chamizo contro il quale il tabellone potrebbe anche metterlo contro. «Può farcela? Io gli ho detto che c’è sempre un muro dove puoi trovare la crepa. Iman è fortissimo e questa sono sicuro sarà solo la prima delle sue Olimpiadi». Dopo Parigi dunque l’obiettivo è Los Angeles 2028, ma prima per sbarcare il lunario bisogna tornare al lavoro notturno. «Io e Iman facciamo i buttafuori nelle discoteche. È dura lavorare di notte e allenarsi di giorno. L’ideale per lui sarebbe trovare un altro mestiere che gli permetta di potersi allenare in tranquillità». Intanto oggi Iman torna a fare il suo mestiere principale, da rifugiato dello sport, il campione iraniano di lotta libera.