L'analisi. Ricoeur-Arendt, il potere è fragile
1776. La firma della dichiarazione d’indipendenza americana in un dipinto di John Trumbull
Se la filosofia – di contro a ogni storicismo, a ogni evoluzionismo: in breve, a ogni sopravvalutazione del cambiamento nella storia della cultura, delle istituzioni e delle dottrine – può ambire a fissare i tratti durevoli della condizione umana, è perché la politica, in quanto tale, è, al di qua della sua perversione totalitaria, un progetto di lunga durata. Quanto per Hannah Arendt i fenomeni economico- sociali sono segnati dal cambiamento e dalla variabilità, tanto la politica presenta caratteri per così dire transistorici, che permettono, ad esempio, ai lettori moderni di riconoscere – nel senso forte di reidentificare – in concetti come potere, sovranità, violenza delle costanti dell’impresa di stabilizzazione della vita in comune degli esseri mortali. Insisto su questo punto: di esseri mortali che pensano l’eternità, ma non godono dell’immortalità, quali sono questi esseri che, attraverso un progetto politico, si danno la sola misura d’immortalità storica loro accessibile. Ma la durevolezza ha la sua più alta incarnazione nella istituzione politica, la quale è eminentemente fragile.
Questa congiunzione del durevole e del fragile costituisce il carattere tragico del pensiero di Hannah Arendt. Questo carattere tragico m’è apparso più chiaramente dopo aver letto l’ammirevole libro di Martha Nussbaum, dedicato al rapporto tra la tragedia e la filosofia e intitolato La fragilità del bene – la fragilità specifica legata alla ricerca del bene... Marta Nussbaum dedica poco spazio alla riflessione politica, sebbene gli eroi dalla grandezza fragile siano in ultima analisi figure politiche: Agamennone, Edipo, Creonte e Antigone. Dove risiede la fonte della fragilità in un’impresa pratica che ha di mira ciò che è durevole nella costituzione stessa del potere? Se è vero che la politica è il luogo dove si congiungono il durevole e il fragile, si deve ritrovare nella politica il principio stesso della sua fragilità e quindi, anche, della sua corruzione. L’abbiamo detto: il potere procede dall’agire in comune. Ora, l’azione in comune esiste solo per il tempo che gli attori la sostengono. Il potere esiste quando gli uomini agiscono insieme; svanisce quando essi si disperdono. La violenza è lo sfruttamento di questa debolezza attraverso un progetto strumentale a breve termine. Ma, ancora prima di questa perversione che è un’inversione brutale, una fonte più sotti- le di fragilità risiede nel legame, sopra richiamato, tra il potere che è nel popolo e l’autorità che è nel senato. L’autorità, secondo la formula, introduce nel campo dell’azione una relazione affatto altra dalla forza, ancor più dalla violenza: una mediazione che, idealmente pensabile come delega, si autonomizza in istanza diretta.
Nel saggio intitolato Che cos’è l’autorità?, la Arendt rifà la storia, dai Greci fino a noi, di questa istanza ambigua nella quale si cristallizza la fragilità della politica. L’autorità, in effetti, ha questo di paradossale: riesce a fare da intermediario del potere indiviso – attraverso il medio di un’istanza di governo distinta dai governanti, per mezzo quindi di un’istanza gerarchica – solo nella misura in cui questa autorità viene da un altro luogo, più lontano e più alto del potere stesso: il mondo platonico delle Idee, la fondazione antica della città presso i Romani, la potenza ecclesiastica che brandisce i fulmini dell’inferno; ora – e questo è l’incipit del saggio – «l’autorità è scomparsa dal mondo moderno». Qui, ci imbattiamo nell’accusa di nostalgia. Ma credo che qui ci si inganni. Se è vero che la polis greca serve costantemente da riferimento, lo è nella misura in cui, con Isocrate e il suo principio d’isonomia, contiene potenzialmente le risorse per una ripresa al di là del fallimento delle sorgenti tradizionali d’auto- rità. La polis greca non è costruita sulla base dell’autorità che Platone le assegna, né sul modello romano ab Urbe condita. Quel che è da pensare, è proprio la delega dell’autorità a partire dal potere. Ed è questo che Hannah Arendt trova nella rivoluzione americana, e nel relativo pensiero politico: il modello di un’esperienza moderna che si ricollega con l’impresa, fino a ora abortita, di un’autocostituzione della città, dove l’autorità derivi dal potere del popolo.
Allora, Hannah Arendt nostalgica? Quando rende conto di tutto ciò che è scomparso, del crollo di tutti i fondamenti extra o sovra-politici, la Arendt torna semplicemente alla nudità della politica – alla politica messa a terra. Attraverso quali giochi di istituzioni liberamente scelte l’azione umana sfugge alla futilità delle opere («salvare le azioni umane dalla futilità che risulta dall’oblio»)? Restaurazione di uno spazio politico? Ma è mai esistito storicamente? V’è un punto in cui la rammemorazione è insieme una proiezione verso l’avvenire. Non è un caso se l’ultimo rimedio cui tornano tutti gli articoli del periodo americano è l’alleanza tra la libertà in senso politico, ovvero l’adesione consenziente a un corpo di istituzioni, e la libertà della tradizione ebraica o cristiana, vale a dire la possibilità di cominciare qualcosa nel mondo. Su questa «infinita improbabilità» – come è detto nel saggio Che cos’è la libertà? –, sulla capacità di interrompere la fatalità, riposa la scommessa antitotalitaria che conclude tutti questi saggi. Citerò solo la conclusione di Che cos’è la libertà?: «Sono gli uomini a realizzare i miracoli, quegli uomini che, per aver ricevuto il duplice dono della libertà e dell’azione, possono fondare una loro realtà».
Il male dei totalitarismi
A 110 anni dalla nascita di Hannah Arendt, la rivista «Humanitas» pubblica a cura di Ilario Bertoletti un ritratto scritto da Paul Ricoeur e apparso nel 1987 in «Les Cahiers de philosophie»; ne offriamo qui uno stralcio. Ricoeur si occupò della Arendt in varie occasioni e soprattutto culminata nel saggio «Pouvoir et violence», ospitato nel volume collettaneo «Hannah Arendt. Ontologie et politique» (1989).