La canzone si racconta/4. Ricky Gianco racconta i suoi anni '60
Nel ’63 a Londra Brian Epstein, storico manager dei Beatles, lo presentò ai Fab Four come importante « italian singer », cantante italiano. In effetti il suo primo album del ’59, Ricky Sann – Ciao ti dirò, aveva venduto due milioni di copie; e il suddetto Ricky Sann, vero nome Riccardo Sanna e futuro nome d’arte Ricky Gianco, era salito allora da Milano al Regno Unito per raffinare uno status da vocalist idolo dei teenager. L’avrebbe fatto da autore (Pugni chiusi), da autore-interprete ( Sei rimasta sola), collaborando coi futuri Dik Dik, Jannacci, Tenco, Paoli, i Quelli – ovvero il primo nucleo della Pfm. E poi Ricky Sann ormai Gianco, nei primi anni ’70, avrebbe detto addio al pop-rock per intraprendere un percorso d’autore: profondo quanto ironico e soprattutto libero, come pochissimi altri nella nostra storia. Tra album storici quali Arcimboldo, spettacoli di peso che arrivano all’ancora itinerante È rock’n’roll, canzoni anche recentissime scritte mescolando denunce, sentimenti e sorrisi ( In quella tuta grigia, Co.Co.Pro, Eclisse a Milano). Il punto è che Ricky Gianco ha poco da fare il pudico a ogni pie’ sospinto, rimarcando il proprio autoironico slogan «Piccolo è bello». Gianco, nel tempo peraltro pure produttore all’avanguardia nonché traduttore di hit straniere, in Italia è stato protagonista-testimone di tutto o quasi, nella storia della canzone: il rock, la musica demenziale, la canzone d’autore, i canti ideologici, le autoproduzioni. E se di Gianco oggi si parla poco (e in tv si vede nulla) malgrado sia uno dei padri nobili della nostra musica, beh, solo in un certo senso dipende davvero dall’altezza. Dall’altez- za morale di scegliere la coerenza, quale stella polare del far canzoni.
A quasi sessant’anni dal primo Festival del rock di Milano del ’57, come ricorda quegli anni?
«Lì non c’ero! [ride: è del ’43, ndr]. Debuttai due anni dopo. Il rock è stata una rivoluzione che però andava oltre Elvis: solo che non eravamo tanti che, ascoltando Radio Luxembourg di notte, scoprivamo anche Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Eddie Cochran o la Bye bye love degli Everly Brothers che poi incisi all’esordio. Il rock parlava dei giovanissimi creando scompiglio, in Italia se ne imitava la superficie. Però Little Tony e suo fratello Enrico ne sapevano davvero, di rock. Tony fece un disco a Londra con brani di Carole King e Gerry Goffin, addirittura: lassù avevano capito come valorizzarne la voce, oltre cioè un taglio alla Presley. Ma quando arrivai in Ricordi, i dischi americani e inglesi che ricevevano non li ascoltava nessuno. E io me li portavo a casa».
Quindi il rock in Italia fu solo immagine?
«No, fu il nostro ’68 musicale lo stesso: da cui discende tutto, rap compreso. Ogni generazione ha bisogno di esprimersi, il rock permette di farlo».
Com’era il primissimo Adriano Celentano?
«Cavalcava un’ondata che in Europa comunque non c’era, fuori dal Regno Unito. E aveva un magnetismo unico, il Clan che fondammo insieme fu gestirsi da soli dieci anni prima degli altri e per me un gran peapa riodo di creatività: in cui però subii anch’io quel carisma».
Tanto che Stand by me la lanciò Adriano, non lei…
«L’avevo sentita in radio, la tradussi in Pregherò, la incisi… e non uscì mai. Un giorno Celentano mi chiamò dicendomi di aver avuto un’idea geniale: inciderla lui! Io avrei fatto il seguito, Tu vedrai: che vendette, sì, ma Pregherò era rivoluzionaria».
Bindi, Jannacci, Lauzi, Endrigo, Paoli, Tenco, Gaber: cos’aveva di unico quella generazione primi anni ’60?
«Hanno incontrato il momento giusto, quello in cui la voglia di cambiare le cose trovava modo di esprimersi: grazie a persone come Gian Franco Reverberi e Nanni Ricordi che impose loro di cantare quanto scrivevano. Di solito si scriveva per Villa, Tajoli, Latilla… E mia mamma quando ascoltava i 45 giri di Paoli, amico fraterno, diceva ancora “È bravo, ma non deve cantare lui”… Tutti poi si abbeveravano a jazz e Francia: Bécaud, Brel, Brassens. Solo Tenco veniva dal rock».
Quando con Ricordi fondò l’etichetta Ultima spiaggia a Roma, una decina d’anni dopo, c’era lo stesso clima che aveva favorito il primo cantautorato a Milano?
«C’era gente tosta in discografia pure lì. Ennio Melis, quando De Gregori ebbe successo, impose ai negozi di acquistare ed esporre anche i dischi di Dalla con quelli di Francesco. Prima Lucio, pur se bravo e musicale da sempre, non vendeva nulla».
Passare dalle hit parade a una pur nobile nicchia di cantautorato, che choc ha dato a Ricky Gianco?
«Nessuno, fu una scelta. C’era la rivoluzione e io cantavo canzoncine… Mi sentivo un adulto vestito da bambino. Certo l’ho pagato, rinunciare a Sanremo, alla tv: ma la coerenza è fondamentale. Anche se poi la gente vuole ancora Il vento dell’Est e soprattutto Pietre, canzone tremenda. Fu Gianfranco Manfredi a spingermi a diventare cantautore, di per sé mi ero ritirato a produrre il Canzoniere del Lazio, l’Alberomotore e anche Braccio di ferro: poi cantare la catena di montaggio alla gente che compra i dischi di Sanremo fu durissimo. Però ai live vengono ancora».
Usare l’ironia è un rischio, nelle denunce?
«Un rischio che ti assumi, sì. Però meglio essere ironici che non esserlo, è anche un modo per resistere ai drammi che vuoi mettere in evidenza».
E come si fa, da impegnati, a non diventare ideologi?
«Deve sempre contare la musica, in una canzone. Troppi vogliono far politica in musica senza metterci la musica… Un mio brano, Ospedale militare, cronaca di una mia esperienza diretta a Torino, se non fosse stato un rock non l’avrebbe ascoltato nessuno».
E il demenziale? Lei fu il primo a farlo: oggi esiste?
«Ci credevo, con Dubbi. Ma non funzionava, troppo poco banale… Metterci volgarità? Non giudico gli altri, però la stessa cosa si può dire in tanti modi».
Oggi, 2016, ha ancora senso per lei fare canzoni?
«Se ne senti il bisogno ne vale sempre la pena. Anche se siamo meno liberi e dobbiamo capire che non possiamo sempre ragionare come fossimo ancora in Guerra fredda. Io sono sempre in tour, di tanto in tanto produco dischi su temi che sento importanti, ora ho sentito un ragazzo, Alessio, che scrive popfolk in inglese e mi è scattata la molla. Lo voglio produrre anche se sarà più facile riuscirci all’estero, temo».