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Cattolici e cultura. Riccardi: «Soltanto una fede pensata può risvegliare la passione»

Gianni Santamaria domenica 28 luglio 2024

Andrea Riccardi

Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone, Arnone, Bruni, Postorino, Dionigi, Lupo, Pierangeli, Verbaro e Rocelli.

Risvegliare fede e passione, senza le quali nessuna vera iniziativa culturale è possibile. E senza le quali ci si può solo limitare a gestire l’esistente di istituzioni benemerite, ma che rischiano di non incidere. È la necessità che sottolinea Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, già ministro e oggi presidente della Società “Dante Alighieri”, ragionando su come «la fede pensata» può interagire con la cultura contemporanea, affinché il cattolicesimo non resti «rannicchiato negli angoli della vita della città».

C’è stata finora una certa timidezza nel rapportarsi con la cultura laica?

«Non si può più ragionare nei termini con cui si ragionava in passato. Ricordo padre Sorge che scriveva di cultura cattolica, cultura laica, cultura comunista. Del resto, erano mondi culturali che funzionavano e avevano la loro proiezione anche nel reclutamento del personale universitario. Oggi penso ci sia un fenomeno mondiale: la deculturazione della religione e dei fenomeni religiosi. La vedo diffusa in quei movimenti neopentecostali ed evangelicali, che sono diventati parte importante del cristianesimo contemporaneo e della sua comunicazione. E che sono assolutamente disinteressati a confrontarsi con i temi della cultura, intesa in termini di storia, futuro, realtà, dibattito, libri. Sono arroccati in una comunicazione tutta di tipo sentimentale».

E i cattolici?

«Questo fenomeno di deculturazione riguarda anche i cattolici. Ma non in maniera così definitiva. Torno sempre a quell’intuizione di Giovanni Paolo II che diceva: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Mi colpisce che questa frase sia stata ripresa a Buenos Aires dal cardinale Bergoglio, il quale non è mai stato un “citatore” di maniera di Wojtyla. Ma su questa intuizione wojtyliana ha insistito molto: la fede che diventa cultura».

A cosa guardare?

«Nella grande storia del cristianesimo abbiamo assistito proprio a questa fede vissuta del popolo di Dio che si è fatta cultura alta e cultura di popolo: rimeditazione della storia, produzione di arte, dibattito con altre forme di pensiero e via dicendo. In questo senso la fragilità dell’espressione odierna della cultura cattolica – non direi della cultura cattolica in sé, che poterebbe sembrare così qualcosa di organico – nasce dalla fragilità della fede vissuta, anzi dalla fragilità delle nostre comunità e dalla rinuncia a dire una parola di rilievo».

Non per niente lei ha di recente scritto un libro che si intitola La Chiesa brucia...

«Sono partito dall’incendio della basilica di Notre Dame proprio per parlare della crisi della Chiesa in Europa. È un fenomeno d’infragilimento su cui si deve riflettere. Inoltre, la fragilità della cultura stessa che - dicevamo - nasce dallo scarso interesse per il mondo, che non si vuole cambiare e con cui non si vuole interloquire. Quando si fa cultura ci si interessa del mondo presente, passato e futuro. Ci si misura con la storia. Naturalmente il cattolicesimo possiede ancora importanti istituzioni culturali, però mi chiedo con quale criterio vengano gestite e come partecipino al flusso di un cristianesimo che si sveglia e si confronta».

Qual è il problema di fondo?

«Secondo me è la passione con cui si vivono la fede e si partecipa alla storia umana. Tale passione genera pensieri lunghi, ma anche confronti e dialoghi intensi. Se non c’è questo, ci sono solo delle istituzioni che funzionano, dei posti da occupare in consigli di amministrazione o a livello apicale. Per questo ci sono sempre cattolici pronti al “servizio”. Se non c’è questo, soprattutto c’è un cattolicesimo rannicchiato negli angoli della vita della città. È inutile esortare i cattolici a fare cultura, se non si suscita questa grande passione. Un testo scritto tanti anni fa dal grande studioso benedettino Jean Leclercq - che secondo me ha ispirato il famoso discorso sulla cultura pronunciato da Benedetto XVI al Collège des Bernardins - parla di “amore delle lettere e desiderio di Dio”. È un testo di grande importanza che riguarda la cultura medievale, e rivela la connessione profonda tra la ricerca di Dio e il fare cultura. Il tema della cultura si lega alla passione con cui le comunità cristiane e i singoli cristiani stanno vivendo la realtà e la ricerca di Dio».

Oggi però non siamo più nel Medioevo di Dante, fatto di un connubio tra teologia e lettere. Oggi domina il connubio tra tecnologia e social. Che porta distanza sociale. Quali luoghi sperimentare per un dialogo?

«Non diamo all’idea di cultura una dimensione organicistica. Questa esigenza di una riflessione culturale è una sfida del pensiero, della ricostruzione della storia. E nasce dal profondo della dinamica della vita e della comunità cristiana. Nasce dal confronto con un mondo complesso e caotico, in cui tutti, nel nostro piccolo, abbiamo l’esigenza di decifrare da dove veniamo e che sta accadendo attorno a noi. Paolo VI nella Popolorum progressio fa un’affermazione importante, che è molto attuale: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Qualche anno fa papa Francesco affermò: “Il mondo soffoca per mancanza di dialogo”. C’è bisogno di cultura, dibattito, ricerca, dialogo… Proprio di fronte alle frontiere sconfinate del mondo globale, delle nuove scienze e tecnologie. Paolo VI, in quel testo lanciava un’idea, che non fu raccolta, ma interessante: “Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà”. Un sogno lontano. Oggi però di fronte a questo mondo dell’io, fragile e fluido, in cui oggi sono una cosa, domani un’altra, come di fronte agli sconfinati orizzonti del mondo, c’è necessità di “una fede pensata”, non un sistema chiuso, ma una bussola si speranza che non tema la mobilità del nostro tempo. È un’espressione densa del mio vecchio amico Pietro Rossano, vescovo, uomo di dialogo con le religioni e grande intellettuale, che proprio parlava di una “fede pensata”. C’è bisogno di pensare la fede e, me lo lasci dire da storico, c’è bisogno di cultura storica. Perché se è vero che non è un dogma che la storia sia magistra vitae, è altrettanto vero che oggi spesso ci aggiriamo nella storia come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura del conflitto. Sta morendo la generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale, i testimoni della Shoah, ed eccoci davanti a un mondo che sta smarrendo la cultura della pace».

In questo dibattito il latinista Ivano Dionigi ha evocato una latitanza, se non proprio un tradimento alla Julien Benda, degli intellettuali, che vengono meno al loro ruolo di testimoni piuttosto che di notai dell’esistente. Cosa devono riscoprire gli intellettuali, in particolare cattolici?

«Dionigi ha ragione. Secondo me il vero problema è il basso livello di passione delle comunità cristiane. Io ho detto “la Chiesa brucia”, ma forse il problema di oggi è il freddo delle nostre chiese. Perché ogni operazione culturale nasce da una grande passione e diciamo anche dalla grande passione scatenata dalla fede. La cultura è capire, è provare a cambiare, è sapere da dove si viene. E allora il vero problema è risvegliare fede e passione, dalle quali nasce la ricerca».