Michela Murgia. Ribelle sì, ma non senza causa
Michela Murgia
Era il 2001, Michela non era ancora famosa. Ci trovavamo al termine di un triennio in Azione Cattolica, che ci aveva visto lavorare insieme: lei come responsabile dei giovani della Sardegna, io come responsabile nazionale. “Che farai ora?”, le chiesi. “Farò l’allevatrice di lumache”, mi rispose. La salutai frastornato da un misto di nostalgia anticipata (pensavo infatti che difficilmente ci saremmo rivisti) e di rabbia (ma come è possibile – riflettevo – che una persona di così grande talento non trovi altro spazio nel nostro paese che quello di allevare gasteropodi?). Fortunatamente mi sbagliavo su entrambi i fronti: il talento di Michela è esploso rapidamente e io ho avuto la fortuna di continuare a frequentarla. Non credo che Michela abbia mai allevato lumache, di mestieri però ne ha fatti tanti: i più noti sono quelli di portiere di notte in un albergo e di venditrice attraverso un call center.
C'è una costante però nelle diverse vite (la definizione è sua) che ha vissuto: quella di brillare e illuminare. Così quando lavorava in albergo ha incontrato Vinicio Capossela e insieme hanno registrato un brano a due voci, che spero un giorno avremo modo di ascoltare; il racconto dell'esperienza nel call center invece è diventato il suo primo grande successo letterario, quello che le ha aperto nuove e inaspettate vite: scrittrice, sceneggiatrice, saggista, attivista, candidata alla presidenza della regione Sardegna e tante altre ancora. Quando le ricordavo quello che pensavo sarebbe stato il nostro ultimo dialogo, lei spiegava tutto con una metafora da campagna sarda: ho fatto la mossa del topo, quello che costretto in un angolo da una scopa, non avendo più vie di fuga, per evitare il colpo ferale, aggredisce.
Ecco allora un'altra costante che ho trovato in Michela dagli anni giovanili ad oggi: la ribellione. Parola quest'ultima che però non va fraintesa. Michela sulla scena pubblica è stata troppo spesso interpretata come una barricadera, un'icona di posizioni ideologiche di un'area ben precisa. Un ritratto falso e semplicista questo, che non dice nulla di chi è stata Michela Murgia. Torno alla metafora del topo: Michela ha lottato per quelli che via via ha ritenuto fossero i più deboli, lo ha fatto con la forza delle sue parole, della sua prorompente personalità, a volte in maniera urticante, nella società come nella Chiesa, ma non è mai stata un'intellettuale da salotto. Le battaglie che ha sostenuto (al di là della valutazione di merito che ciascuno di noi può dare) le ha fatte sulla base di una ricerca, di uno studio, mai attraverso scorciatoie ideologiche. Michela si è esposta e ha pagato di persona. Michela ha detto parole dure non per odio verso qualcuno, né per compiacere circoletti intellettuali, Michela ha parlato in coscienza e consapevolezza, attirandosi per questo, oltre ad ammirazione, anche l'odio di molti. Circostanza per cui ha sofferto. Il sogno di trasferirsi in Corea, coltivato negli ultimi anni, veniva proprio da questo: dalla sofferenza di essere insultata, magari mentre era in fila al supermercato, in ragione delle sue idee.
C'è poi un'altra dimensione meno conosciuta di lei che, per questo, vale la pena di raccontare: quella della fede. Michela ha studiato teologia, animata da quella che Ignazio chiamava la santa inquietudine. Michela ha polemizzato e fatto a botte con la religione, non con la fede che mai ha rinnegato. Michela è stata un'intellettuale credente che ha provato sempre, nella sua coscienza come nelle pagine scritte, a far dialogare la cultura e le istanze del nostro tempo con il Vangelo, con tutta la fatica e le incongruenze che questo comporta. Non spetta a nessuno giudicare il suo percorso, per quanto mi riguarda sento di ringraziarla anche per la testimoninaza, profondamente evangelica, di come ha vissuto la malattia, per averci dimostrato, come ha scritto Chiara Valerio, che “i legami tra le persone sono più persistenti delle persone stesse” e per averci lasciato una delle più belle definizioni di Paradiso che mi sia toccato di ascoltare: “una comunione continua senza intervalli”.