Basket. Stefano Tonut: io, figlio d'arte, e i sogni della Reyer Venezia
Il 23enne della Rejer Venezia Stefano Tonut.
C'è stato un tempo in cui il basket a Venezia si giocava nel palazzetto delle meraviglie: la “Misericordia”. C’Uno scrigno cinquecentesco in cui fino agli anni Settanta del Novecento si andava a canestro tra imponenti statue di marmo e raffinati affreschi alle pareti che rapivano gli increduli spettatori e incutevano timore agli avversari. Una Cappella Sistina dello sport in cui la Reyer Venezia Mestre ha toccato i vertici del basket italiano conquistando due scudetti negli anni 1941-1943. Una storia da leggenda ripercorsa anche in un libro recente, Costantino Reyer e Pietro Gallo. Le origini degli sport moderni a Venezia, (Marsilio, pagine 416, euro 35) a cura di Giorgio Crovato e Alessandro Rizzardini. L’omaggio ai due patriarchi dello sport veneziano, gli insegnanti di ginnastica Reyer e Gallo, che lanciarono in laguna discipline come la scherma, il canottaggio, il calcio, l’atletica e la pallacanestro. Dal 1872 la Società polisportiva Reyer è stata un’autentica palestra di vita per i ragazzi, anche grazie alla funzione degli oratori. Un passato glorioso e un presente che cestisticamente parlando vive da alcuni anni un nuovo Rinascimento.
L’Umana Reyer, guidata oggi in panchina da Walter De Raffaele, può cullare sogni ambiziosi anche in questa stagione. In campionato, dove alla penultima giornata occupa il secondo posto solitario dietro alla corazzata EA7 Milano, mira quantomeno alla terza semifinale scudetto consecutiva. E anche in Europa si giocherà da domani una storica Final Four della Champions League. Un cammino esaltante che ha messo in luce uno dei migliori talenti del nostro basket, Stefano Tonut, 23 anni, 194 centimetri, figlio di Alberto, medaglia d’oro con l’Italia all’Europeo ’83. Nato a Cantù, ma vissuto di fatto a Trieste, Stefano è riuscito a superare le inevitabili difficoltà generate da un cognome “pesante” entrando a pieno titolo anche nel giro della Nazionale maggiore.
Venezia, non è più una sorpresa, dove può arrivare quest’anno?
«L’anno scorso siamo stati frenati dai tanti infortuni, eppure siamo riusciti in semifinale-scudetto a portare Milano fino a gara 6. Non senza qualche rimpianto perché potevamo far meglio. Quest’anno se ci crediamo possiamo arrivare anche in finale».
Milano rimane la superfavorita…
«Più che Milano, dobbiamo guardare a noi stessi. Se manteniamo alta la concentrazione ce la giochiamo anche con l’EA7: loro sono forti, ma noi siamo sulla buona strada».
Domani un traguardo storico anche in campo internazionale: le finali di Champions League.
«Sì è un impegno importante delicato. Forse siamo stati anche sfortunati nel sorteggio perché incontreremo subito in semifinale i padroni di casa, gli spagnoli di Tenerife. Ma se si arriva alla Final Four non puoi fare calcoli, scendi in campo solo per vincere. Poi sarà anche “figlia minore” dell’Eurolega, ma questa Champions League, soprattutto dagli ottavi in poi presentava squadre di fascia alta dei migliori campionati europei».
Sta bruciando le tappe. In Nazionale è stato chiamato anche nel torneo preolimpico purtroppo conclusosi con una grande delusione per l’Italia.
«Non mi aspettavo quella convocazione e devo dire grazie sia a coach De Raffaele che al ct Ettore Messina. Per me è stato un sogno vestire la canotta azzurra in quell’occasione. Peccato sia andata male, ma non è vero che c’è stata poca umiltà come è stato detto: la Croazia è stata più forte. Quest’anno ci sono gli Europei e spero di esserci, ma il primo obiettivo adesso è far bene con la Reyer».
Gioverebbe alla Nazionale una Serie A con un minor numero di giocatori stranieri?
«Sarebbe bello avere sempre tanti italiani in campo. Però c’è anche l’A2 che è un campionato interessante e funge da vetrina per tanti giovani. Per me è stato così. Sono stati fondamentali sia gli anni a Trieste che le Nazionali giovanili, come l’indimenticabile oro agli Europei Under 20 nel 2013».
Quanto ha inciso sul suo percorso il fatto di essere figlio d’arte?
«Non è stato facile perché sentivo grandi aspettative intorno a me, ma non posso dire di non aver avuto occasioni. All’inizio però ero il più piccolo in squadra, anche per altezza, e intorno ai tredici anni volevo mollare. Giocavo anche a calcio, ma non mi piaceva l’ambiente, poi cinque-sei anni fa son cresciuto di colpo di quasi venti centimetri e non ho avuto più dubbi. Ma decisiva è stata la mia famiglia».
Perché?
«Ho iniziato a giocare a basket a cinque anni, ma mio padre mi ha sempre lasciato libero e non si è mai intromesso con gli allenatori che ho avuto. Lui, ma anche mia madre, mi son stati sempre vicino. Ho la fortuna di avere una famiglia forte e unita. Indimenticabili da bambino le sfide con papà, o anche le sue ultime partite a fine carriera: pur di stare a bordo campo vicino a lui pulivo il campo nelle pause, entrando anche quando non potevo…».
Quali consigli le dà suo padre?
«Mi ha sempre ripetuto di giocare per divertirmi. Ma soprattutto di rimanere umile e trasparente con tutti. Mi fa piacere quando mi riconoscono di essere un lottatore, ma sempre corretto con tutti. Per carattere sono molto tranquillo anche fuori dal campo».
Qual è il segreto della sua calma?
«Il mare. Ho studiato al liceo nautico, ho il diploma come costruttore navale. Papà da bambino mi portava con lui a pesca e ho ereditato questa passione che allena molto alla pazienza. E quando posso con la mia barchetta prendo il largo perché oltre a rilassarmi mi aiuta molto a riflettere su me stesso. Sono momenti unici. Qualcosa di simile ho provato con la squadra in un’iniziativa particolare che l’Umana Reyer compie ogni anno: il pellegrinaggio alla Basilica della Madonna della Salute».
In che senso?
«Sarà che per i miei genitori la fede è un valore molto forte, trovarsi in quel luogo è stato davvero emozionante. Mi son sentito diverso dentro. Per quanto mi riguarda ho maturato in questi anni un motto che ho voluto tatuarmi sul braccio: “Credi in te stesso e ama ciò che hai”».