Retrotopia. Se il mondo del futuro fa paura, davvero ci può salvare il passato?
Una scena dal film «1984» di Michael Radford, tratto dal libro di George Orwell
Retrotopia: è la malattia di cui soffre l’uomo occidentale per Zygmunt Bauman. Incapaci di guardare al futuro con speranza e fiducia, preferiamo volgerci al passato per cancellare le paure. Ma questo cammino a ritroso in quello che è stato l’ultimo libro del filosofo polacco non è una corretta salvaguardia della tradizione, semmai un segno d’impotenza. Un pizzico di utopia – pare dirci Bauman – invece è sempre salutare.
Ma se sembra oggi fuori moda il tempo delle utopie, le distopie sono sempre in agguato. Ce lo ricordano il cinema e la letteratura. Pensiamo alla recente riproposta del romanzo L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup (Iperborea). In una Danimarca immaginaria il potere si prende cura degli essere umani dalla culla alla tomba imponendo una dittatura soffice ma pervasiva, resa possibile da una manipolazione costante dell’opinione pubblica da parte della televisione e della stampa, completamente nelle mani dello Stato. Come segnala Anthony Burgess nella postfazione alla prima edizione dell’opera del 1973, lo Stato impone una neolingua in nome del politicamente corretto che vuole eliminare ogni differenza. Non c’è insomma da temere l’arrivo di un Grande Fratello, dato che «gli Assistenti e gli Eufemisti sono già tra noi».
All’opposto, la cupa morale della colpa e del castigo dell’Antico Testamento domina un romanzo distopico dell’autore svizzero Friedrich Dürrenmatt, La guerra invernale in Tibet, da poco pubblicato da Adelphi. Un affresco apocalittico sulla civiltà tecnologica: in un pianeta ormai inabitabile dopo una terza guerra mondiale che ha decimato l’umanità a causa delle armi nucleari, si continua a combattere sui ghiacciai del Tibet. Ma è una guerra senza senso condotta da mercenari che considerano «l’uomo solo come animale da preda». Ma, si chiede Dürrenmatt, «dove cessa l’animale da preda, questa crudele, sanguinaria scimmia predatrice che si chiama uomo, e dove comincia il superuomo?».
Sono gli incubi della tecnoscienza, il controllo della mente dei cittadini, l’inverno demografico a farla da padrone nelle distopie più recenti. Le descrive Elisabetta di Minico nel libro Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia (Meltemi, pagine 418, euro 28,00), che non a caso assume come esergo una frase emblematica di Orwell: «Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato».
Citazione tratta dal romanzo 1984 per rimarcare come l’autorità dispotica si affidi a un controllo viscerale, imposto ai cittadini anche grazie alle “mezze verità”, come dice il tecnologo Neil Postman: «Disinformazione non vuol dire informazione falsa. Significa informazione ingannevole – malriposta, irrilevante, frammentata o superficiale – informazione che crea l’illusione della conoscenza, anche se di fatto allontana da essa».
L’ambiguità più che le fake news caratterizza il nostro tempo. Il risultato è l’annullamento del pensiero critico, della nostra capacità di giungere alla verità. Non solo: per dirla con Foucault, «la nostra società non è quella dello spettacolo, ma della sorveglianza». Il recente caso Facebook ne è la prova. Il libro della studiosa, che fa parte del gruppo di ricerca Histopia all’università di Barcellona, si avventura nei tentativi di manipolazione dei cittadini realizzati dai regimi totalitari del XX secolo per arrivare ai nostri giorni. E ripercorre alcuni dei più significativi romanzi e film che hanno raccontato distopie più o meno lontane.
Oltre al già citato Orwell e ai famosi Il mondo nuovo di Huxley e Fahrenheit 451 di Bradbury, l’autrice ricorda un libro dello scrittore inglese Samuel Butler, Erewhon, parodia dell’età vittoriana, che descrive una società perfetta caratterizzata dal perbenismo ma anche dal grottesco. Le chiese sono trasformate in banche musicali dove si può acquistare la salvezza eterna e la nuova religione è basata sul bon ton.
Oppure La macchina si ferma di Edward Morgan Forster, dove l’umanità è confinata a vivere nel sottosuolo da macchine intelligenti che la accudiscono in tutto e per tutto. Il mondo sembra un alveare: il contatto fisico è ostracizzato e gli uomini comunicano solo attraverso degli schermi. Una visione ante litteram diI nternet? La paura dell’estinzione per l’incapacità di procreare prevale in altri romanzi citati, come I figli degli uomini della grande giallista inglese P.D. James (da cui è stato ricavato un pessimo film con Clive Owen e Julianne Moore). In una società sterile da decenni, una giovane rifugiata di colore rimane incinta e decide di lasciare il Regno Unito, che si ispira a regole di puro razzismo con i clandestini rinchiusi in campi di concentramento. L’unica possibilità di salvezza viene da lei, un’illegale, simbolo di un’alterità che la repressione vuole distruggere.
Non molto differente lo scenario del romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, da cui è stata tratta una serie tv tra le più riuscite, la cui terza stagione è andata da poco in onda con una strepitosa Elisabeth Moss. «Nolite te bastardes carborundorum»: questa espressione in latino maccheronico, che più o meno sta a significare «non lasciare che i bastardi ti schiaccino», è l’emblema del romanzo, un motto di ribellione verso la teocrazia totalitaria che in un futuro non troppo lontano si è imposta negli Stati Uniti mentre la Terra è stremata dalle guerre e dalle radiazioni che hanno provocato una spaventosa crisi demografica.
Nella distopia della scrittrice canadese le poche donne ancora in grado di procreare vengono asservite ai potenti e costrette a fare figli per conto loro. Si chiamano ancelle e una di esse racconta la vicenda. Ma tutte le donne devono obbedire agli uomini e non possono lavorare; le più fortunate sono le “ecomogli” di politici o comandanti, comunque costrette a restare in casa; quelle anziane e non fertili sono ridotte a schiave. A tutte è assolutamente proibito leggere. Anche in questo caso la dominazione da psicologica si fa linguistica, con giustificazioni di stampo biblico e teologico che a noi uomini e donne del XXI secolo fanno ribrezzo. Fortunatamente la protagonista, Difred, non si lascia afferrare dalla disperazione e, in un momento di scoramento, si rivolge a un Dio che sa che non può essere causa del suo male e reinterpreta il Padre nostro: «Non credo nemmeno per un secondo che quello che vedo qui sia frutto della tua volontà. Ho abbastanza pane quotidiano, quindi non perderò tempo a parlarne. Il problema è mandarlo giù senza soffocare. Ora veniamo alla remissione dei peccati. Non importa che mi perdoni subito, ci sono cose più importanti. Per esempio, mantieni gli altri al sicuro, se sono al sicuro. Non farli soffrire troppo. Se devono morire, che sia una morte rapida. Potresti anche offrire loro un Paradiso, Per il Paradiso abbiamo bisogno di Te. L’inferno ce lo possiamo fare da soli».