Concluso il restauro conservativo che restituisce i colori originari all’immensa scultura di Pericle Fazzini nelalcuno sostiene che Pericle Fazzini sia stato capace di dare immagine e materia all’ansia evangelizzatrice di Paolo VI. E che Papa Montini avesse una particolare predilezione artistica per lui lo si comprende dall’insistenza con la quale lo cercò per affidargli la realizzazione dell’opera che avrebbe dovuto decorare la grande Aula delle udienze che lo stesso pontefice aveva affidato nel 1964 a Pier Luigi Nervi. Prima lo cerca nel 1965 chiedendogli un bozzetto senza un tema specifico; poi nel 1972, dopo l’inaugurazione dell’Aula, assegnando il tema della Resurrezione . E poco conta che in quei sette anni si sia pensato anche a Marc Chagall, con l’idea di fargli realizzare una grande vetrata decorata. Il connubio fra Paolo VI e Fazzini è tutto centrato sulla necessità di portare Cristo al mondo, sull’urgenza di evangelizzare una modernità che, soprattutto nelle sue forme artistiche, si era troppo distanziata dalla verità e dalla luce della fede. «La fede è il movente della speranza e la speranza è Dio e quando ho lavorato a La Resurrezione Dio era dentro di me», ebbe a dire lo scultore qualche tempo prima di morire nel 1987. Una storia affascinante, quella dell’immensa scultura bronzea che domina quella che oggi viene giustamente chiamata «Aula Paolo VI». Una storia ripercorsa nel volume Resurrezione fucina di fede (edizioni GeMar) che è stato presentato ieri in Vaticano a testimonianza degli appena conclusi lavori di restauro conservativo dell’opera di Fazzini. Nell’occasione – insieme al cardinale Giovanni Lajolo, presidente emerito del Governatorato Vaticano, e a monsignor Paolo De Nicolò, reggente della Casa Pontificia – c’erano il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, il preside della facoltà di Architettura della seconda università di Napoli (struttura che ha coordinato il lavoro scientifico di restauro) Carmine Gambardella e Antonio Del Giudice, responsabile del restauro. Nei fatti La Resurrezione di Fazzini se non è la scultura universalmente più conosciuta è certamente la più vista, avendo fatto da sfondo a decenni di riprese televisive in mondovisione delle grandi udienze del Papa e di avvenimenti culturali di livello internazionale. Ed è probabilmente una delle più imponenti opere artistiche in bronzo mai realizzate, con i suoi 400 quintali di metallo, 18 metri di lunghezza, sette di altezza e quattro di profondità. Richiese cinque anni di lavoro intenso, fra il 1972 e il 1977, che sottoposero lo scultore a un grande stress, fisico e spirituale. Appena concluso il grande bozzetto in polistirolo in scala uno a uno, scolpito (se così si può dire) di suo pugno e montato nell’allora chiesa sconsacrata di San Lorenzo in Piscibus su via della Conciliazione, nell’agosto 1975 Fazzini viene colpito da una trombosi che richiede un lungo periodo di riabilitazione, durante il quale però non cessa di seguire la sua creatura. Dal polistirolo, pezzo per pezzo, tutti numerati, viene eseguita la fusione in lega variabile (secondo le indicazioni del maestro) di rame, stagno e zinco, così che nei fatti l’opera risulta, come ha rilevato monsignor De Nicolò, «un dialogo sapiente di bronzo e ottone». Dialogo che la ripulitura del restauro fa riemergere nello splendore originario, con i gialli dell’ottone che illuminano il volto, il torace e le mani del Cristo tenero e amorevole, scaturito a nuova vita dall’oscurità della morte, in un dinamismo che lo conduce verso il cielo, ma non lo distacca dalla terra e dalla sorte degli uomini. «La terra tremò, sta scritto nel Vangelo, quando Cristo morì – scrive lo stesso Fazzini – ma io ho immaginato la Resurrezione dall’uliveto, successiva a una catastrofe: Cristo vola via spinto dal vento, si libera dal velo mortuario... Cristo risorto dalle rovine... che non vuole considerare il suo abbraccio col Padre come un addio agli uomini». Cristo emerge da un intrico di rami, di radici, di materia che verso l’esterno si trasforma in nuvole e saette, in una sorta di esplosione nucleare che simboleggia la morte nella sua maligna potenza distruttiva. Per trasportare nell’Aula Nervi le centinaia di pezzi in metallo cavo servono due tir per carichi speciali. Conclusa la convalescenza, Fazzini segue personalmente le varie fasi della saldatura che richiede quasi due anni. Un lavoro improbo. Così come la costruzione del bozzetto si era svolta nell’aria irrespirabile densa dei vapori del polistirolo fuso, l’edificazione in bronzo si realizza fra i fumi e i bagliori della fiamma ossidrica, che fonde le leghe metalliche. Con in più le difficoltà date dal fatto che la scultura è autoportante. A testimoniare la fatica di tecnici e fonditori, come è emerso dal restauro, c’è un piccolo pezzo bronzeo, collocato probabilmente per ultimo, con incisa la parola «Fine ». Mentre in alto il vertice di una saetta, posta in posizione defilata, porta incisa la firma di Fazzini. Il quale, parlando di questa scultura, disse: «È stata una grande preghiera », in essa «ho dato tutto me stesso, a volte lavorando come in trance... come se qualcosa sopra di me guidasse la mia mano e il mio cervello perché potessi raggiungere il cielo».