Un’operazione complessa, ma per niente ideologica e tanto meno revisionista. Emanuele Ongaro, direttore dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza, tessera dopo tessera prova a mostrarci nella sua ampiezza, non l’“altra Resistenza”, ma uno dei suoi volti spesso oscurati: quello civile, non violento, quello del sangue risparmiato che fa la storia come quello versato. Certo, lo fa con un intento dichiarato sin dalle prime pagine del suo
Resistenza nonviolenta, che cita e fa tesoro di interventi e saggi apparsi negli ultimi anni (da ricordare Anna Bravo, Rachele Farina, Anna Maria Bruzzone, Enzo Collotti, Lutz Klinkhammer, Lidia Menapace, Jacques Semelin, Antonio Parisella), e l’obiettivo è quello di superare definitivamente distorsioni storiografiche – e sedimentate nell’immaginario collettivo – che identificano la Resistenza con la sola azione dei partigiani armati, eclissando la partecipazione non violenta di quella larga parte della popolazione, egualmente importante nella rivolta morale al nazifascismo.Come dimostrano i tanti capitoli di questo lavoro concentrato sull’Italia, ma aperto da un richiamo a Marc Bloch, il medievista combattente nella Resistenza francese, morto dopo aver rifiutato di salvarsi fuggendo e dopo aver guardato alla storia come «una vasta esperienza delle varietà umane». Ecco allora il senso di un lavoro scritto per «alimentare la memoria fertile della Resistenza, che può ispirare ancora l’agire nel presente». Un libro dove, accanto alle diverse brigate partigiane e ai partiti del Cnl preoccupati di veder riconosciuto il loro ruolo (si pensi al decreto legge che già il 21 agosto 1945 graduava l’impegno dei resistenti nelle tre tipologie di partigiano combattente, patriota, benemerito, secondo il criterio dell’adesione alla lotta armata), trovano spazio tanti protagonisti della ribellione nonviolenta. Quelli che in tante parti d’Italia furono pronti a soccorrere soldati in fuga dopo l’8 settembre, ex-prigionieri alleati, ebrei, sbandati e deportati, renitenti alla leva che rifiutavano l’arruolamento nelle forze armate repubblichine; quelli attivi nel sostenere lotte nelle fabbriche, nelle scuole e nelle campagne, sfidando le ordinanze nazifasciste, contestando la legittimità dei diktat degli occupanti, diffondendo la stampa clandestina (occorreva «far sapere, non solo lottare»). Una mobilitazione sociale capace anche di assunzione di rischi, di appoggio attivo: la Resistenza senz’armi , necessaria a quella in armi. A lungo sottovalutata e sino a poco fa in attesa di un vero approfondimento, come questo libro comincia a fare con approcci poco consolidati. Ad esempio, valutando il contributo del Paese non solo o non più sulle perdite umane provocate dagli scontri, ma contando anche le vite strappate al Terzo Reich, nascoste, aiutate a fuggire, salvate in tanti modi e tuttavia mai cruenti. Appunto la Resistenza non violenta, che Ongaro ricostruisce in un mosaico di grande interesse, tra drammi misconosciuti ed episodi ignorati: le proteste delle donne per comprare liberamente il latte, dei contadini che rivendicavano il diritto di macinazione senza obblighi, degli internati militari riluttanti all’uniforme tedesca. Sottolineando il dato puramente “strumentale” e non “esaustivo” dell’aspetto armato della Resistenza. Attribuendo valore anche all’estraneità nei confronti dell’occupante. E sulla violenza come necessità estrema, ma intimamente rifiutata? La risposta è affidata a Tina Anselmi, allora giovanissima staffetta-partigiana. È lei a ricordare: «Era una responsabilità enorme: uccidere. Scatenare con le nostre azioni le rappresaglie [...]. Eravamo ben consapevoli di poter morire e noi volevamo vivere, di poter uccidere e noi non volevamo uccidere [...]. Ancora oggi mi reputo fortunata per non aver dovuto uccidere. La scelta della lotta armata, la possibilità di dovere uccidere che essa comporta, entrava in conflitto con la mia fede cattolica, come con l’etica laica di altri compagni».
Ercole OngaroResistenza nonviolenta 1943-1945I libri di Emil. Pagine 319. Euro 19,00