Reportage. In Vietnam vent'anni dopo, luogo di speranza
Case sul fiume nella città di Hoi An nella provincia di Quang Nam, nel Vietnam centrale
Un'immagine del centro della capitale Hanoi, otto milioni di abitanti - Unsplash
Sono stato recentemente in Vietnam, un Paese che avevo visitato vent’anni fa per due volte di seguito, che mi aveva affascinato per la sua capacità rigenerativa, per la sua vita di strada intensa, per la sua letteratura. Avevo incontrato e intervistato il grande Nguyen Huy Thiep, relegato ad Hanoi in una specie di esilio domestico, autore del famoso Un generale in pensione che aveva fatto scandalo nell’immediato dopoguerra perché raccontava le disillusioni di tutta una generazione che scopriva, tornando dalla guerra, una società corrotta e cinica. Eravamo riusciti insieme a Maurizio Gatti che dirigeva ObarraO, una casa editrice specializzata in narrativa orientale, a farlo tradurre e pubblicare in Italia. E il premio Nonino nel 2008 aveva coronato Thiep con un commento di Claudio Magris, che era in giuria, che ne parlava come di un Cechov d’Oriente.
Ero convinto di trovare in questo ritorno dopo vent’anni un mondo radicalmente cambiato e anche devastato. Invece l’impatto con Hanoi, una città nel frattempo ingigantitasi, otto milioni di abitanti, mi ha ridato le stesse impressioni di allora, una società che ha resistito alla omogeneizzazione del regime e del capitale, che vive la metropoli con la capacità di abitarla in una dimensione pubblica costante: si mangia sui tavolini e sgabelli per strada, si prende il caffè in una infinità di angoli, ci si affolla in un traffico matto di motorini e auto. Insomma, una città da commedia umana, in cui il controllo dei comportamenti e delle identità non ha scalfito la natura profondamente comunitaria della storia del Vietnam. Un Paese grande quanto l’Italia, stretto e lungo sotto una Cina incipiente, che ha quasi cento milioni di abitanti, con il 70 per cento degli abitanti che hanno meno di 35 anni, cioè sono nati senza avere vissuto la guerra e le sue conseguenze.
Gli amici che ho ad Hanoi mi spediscono a visitare una parte in cui i turisti non arrivano quasi mai, nel Vietnam centrale, sulla costa, a Tuy Hoa. E lì incontro quel 40 per cento del paese che fa l’agricoltura di questa che sta diventando una delle tigri dell’oriente, con il suo balzo annuo di 7% dell’economia, e i piedi per terra di chi sa che l’oro del futuro sta nella produzione agricola. Il Vietnam è uno dei primi Paesi al mondo come produzione ed esportazione di riso e di caffè, in cui è secondo solo al Brasile. Quello che mi impressione è la campagna vissuta, abitata da piccoli farmers con delle case dignitose ai bordi delle risaie, dei campi di fior di loro, di meloni amari, di tutto il ben di Dio che questa terra tropicale offre. Una campagna ordinata lungo i canali che distribuiscono le acque, solcata da trattori e bufali, interrotta da macchie di guava, papaya, canna da zucchero, e da foreste e zone umide – dove si esercita l’allevamento di frutti di mare, pesce, aragoste, granchi. Torno dagli amici che mi aspettano ad Hanoi e parlo a lungo con uno di loro, quarantacinquenne, con due figli ventenni, piccolo imprenditore che viaggia molto in Europa soprattutto. E gli chiedo se la mia impressione è esagerata o il paese va davvero bene. La sua risposta, insieme a quella del figlio ventenne mi impressiona. Entrambi vedono il futuro del Paese come molto positivo. Il padre dice che soprattutto la lezione della guerra ha significato che quella strada non è più da percorrere. Parla dell’Ucraina, del fatto che l’esperienza vietnamita dimostra che due anni non bastano e che alla fine perdono tutti. Parla della capacità del Vietnam di giostrarsi tra Cina, Russia e Stati Uniti con cui ha da poco stretto un accordo rifiutandone però le basi militari. E dell’Europa con cui i canali sono sempre più aperti, con le auto elettriche prodotte qui che sono molto più avanzate come tecnologia (si è arrivati a produrre batterie a sodio – cioè a sale) di quelle americane ed europee, ma vengono disegnate da Pininfarina. Sento una speranza che non è usuale trovare in Europa, un anelito al futuro che è apertura, vivace globalizzazione senza esserne schiacciati.
La cattedrale di Hanoi - Unsplash
La domenica visito la cattedrale di Hanoi durante la Messa, in questa piazza che è diventata il luogo in cui migliaia di giovani si riuniscono a prendere il caffè e il dolce di riso avvolto in foglie di banano. La chiesa è gremita al punto che una parte dei fedeli segue la Messa fuori, a volte a cavalcioni sul motorino. Un’atmosfera intensa, molto forte di fronte alla Madonna dai tratti orientali vestita in Ao Dai, il costume tradizionale. Mi viene da pensare che se la chiave di questo Paese è la speranza la Chiesa può avervi un luogo privilegiato. Perché è una delle poche istituzioni internazionali a non essere bloccata nel dilemma globalizzazione o sovranismo. Per la Chiesa l’universalismo è una forma di globalizzazione con l’anima, l’idea che solo la pace consente quella unione di popoli e nazioni che è l’unica possibilità di futuro per il pianeta. Il Vietnam dimostra cosa si può fare se alla guerra si sostituisce la diplomazia sostenuta da un’idea intelligente di mercato – e non soffocata da un regime che ha capito da un buon ventennio che la collettivizzazione statale porta solo alla corruzione e alla povertà.
Un romanzo molto bello, Anam, di un giovane vietnamita, Andrè Dao, che fa parte della diaspora vietnamita in Australia, racconta tre generazioni della sua famiglia, avendo come centro del racconto il nonno, intellettuale cattolico che ha passato dieci anni nelle carceri di Hanoi, essendo un personaggio del Sud che ha resistito a Ho Chi Minh. È un testo sulla memoria e sul dimenticare, su ciò che passa tra generazioni, ed è un testo sul senso della speranza. Andrè Dao si domanda, lui che non è credente, cosa ha potuto spingere a resistere il nonno che ha conosciuto da vecchio, dopo che era stato liberato ed esiliato. Possibile che la speranza cristiana di un mondo che sarà riscattato, redento, possa essere più forte dell’evidenza del fallimento della propria vita in carcere spietato? Mi sembra che il Vietnam di oggi ispiri speranza e che la Chiesa, che della speranza è una rappresentante in terra, potrebbe a partire da questa esperienza orientale capire molto del proprio futuro: diventare la garante propugnatrice della diplomazia della pace, degli strumenti della pace, del training da fare alle nuove generazioni perché siano efficaci, instancabili operatori di pace.