Agorà

Anniversari. Renato Serra. L'etica di scrivere

Pasquale Maffeo sabato 18 luglio 2015

La passione e morte sul Podgora di Renato Serra per la causa italiana richiama in parallelo la passione e morte sul Podgora di Scipio Slataper: scrittori, l’uno e l’altro, che all’odierna lettura critica risultano legati da una virile consonanza di fondo. Erano entrambi andati in guerra volontari. Serra cadde nel pomeriggio del 20 luglio 1915, tenente alla testa dei fanti con lui balzati all’attacco  per la conquista di trincee austriache. Una pallottola in fronte gli bruciò il cervello quando mancavano cinque mesi a compiere trentuno anni. Veniva così troncato il destino di un outsider a suo modo poeta, saggista, lessicografo, chiosatore e interprete di testi letterari acuto e folgorante nei giudizi. Dotato, si direbbe, di una straordinaria antiveggenza. 

Confessava a Giuseppe De Robertis il 20 marzo 1915: «Forse verrà la guerra, e quel che il caso può portare in quella, a rispondermi. Avrei un po’ di rimorso di andarmene così, in debito, non dico colla letteratura, ma con me stesso: e con tante cose amate, nella terra e nel cielo, verso cui m’ero assunto un impegno silenzioso, passando e lasciandomele addietro. Forse anche sarei contento: e la soluzione sarebbe perfettamente nel mio carattere: la mia conclusione». Il demiurgo Gianfranco Contini rintracciò in Serra primordi di critica stilistica. Si può essere d’accordo, a patto che per “stile” qui s’intenda l’integra humanitas, il sentire, l’agire, l’irrevocabile assolo del testimone nella cultura del tempo che gli toccava vivere. Serra viveva a Cesena, dov’era nato il 5 dicembre del 1884. Là era stato nominato direttore della Biblioteca Malatestiana nell’ottobre del 1909. Del suo impiego rivelava a Carlo Linati il 21 agosto 1914: «In questa piccola città faccio molto liberamente il bibliotecario di una silenziosa e superba libreria quattrocentesca; e della vita letteraria contemporanea non m’accorgo e non mi curo se non attraverso le lettere di pochi amici, e in qualche corsa che faccio, di tanto in tanto, verso una città più grande. Allora una stazione di qualche ora nelle librerie che conosco, a Bologna, a Firenze o a Roma, mi permette, così in piedi, presso l’etagère dei libri nuovi, sollevando i lembi dei figli non ancora tagliati, di prendere una conoscenza rapida e sufficiente per me delle così dette novità della stagione». Fiutava e adocchiava quel che c’era di plausibile o buono sul banco delle recenti uscite. Prima di risalire al corpus del lascito e assaporarne l’indelebile originalità, giova scrutare la pullulante vicenda biografica, la precocissima intelligenza, la rapida crescita intellettuale, le sequenze di attese e speranze, accettazioni e ricusazioni, lutti domestici, incidenti, ferite nel corpo e nello spirito. Perché l’unicità del personaggio Serra è appunto nel pieno coincidere dell’uomo con lo scrittore, in una coniugazione di sé fuori retorica e fuori scuderia, non gregario di cordata e non discepolo di manifesto.  A otto anni sostiene l’esame di ammissione al ginnasio, a quindici consegue la licenza liceale, a venti si laurea in Lettere classiche a Bologna con una tesi sullo stile dei Trionfi del Petrarca. Cominciano le fatiche, i viaggi, le supplenze scolastiche e gli insegnamenti. Intanto sopravvengono le disgrazie: nel 1908 muore la sorella Maria Pia, madre di due bambini; nel 1911 muore il padre medico, di nome Pio, investito da un treno nello scalo di Cesena. Nel medesimo anno l’infondata gelosia di un marito gli tende un agguato sul cammino.  L’Epistolario annota e documenta. Circa la tragica perdita del padre: «Un giorno ce ne andremo tutti per questa strada che oggi non sappiamo guardare; dove sono andati quelli con cui vorremmo essere; io non sono stato mai così tranquillo e quasi contento di me come in quel momento in cui sono disceso insieme con mio fratello in una celletta buia a guardare il lavoro che il muratore aveva disposto; e sentimmo in quel silenzio il luogo fatto anche per noi» (a Emilio Lovarini, 2 marzo 1911).  Circa l’attentato alla sua vita: «Un braccio forato e spezzato da una palla, il capo e l’orecchio lacero da un colpo di sbarra di ferro; un’altra palla si è fermata sul ventre contro il portamonete. Ecco il bilancio di stamattina » (a Armando Carlini, 4 dicembre 1911). Serra aveva risposto al fuoco con un colpo di pistola, ne ebbe noie giudiziarie con piantonamenti in casa, infine l’assoluzione. Molte cose gli insegnarono a leggere il recto e il verso delle concatenazioni umane, il parere e l’essere, la verità e la menzogna: proclamarono che in arte come nella vita non si nasce figli di ignoti. Siamo nel territorio della letteratura. Il regesto della produzione propriamente saggistica certifica l’obbedienza etica a una vocazione dinamica che non conosce intermittenze, è la musica di un basso continuo che alimenta scandagli di ricerca, scoperte, svisceramenti, annessioni esemplari.  Scriveva Serra a Luigi Ambrosini nel 1907: «Non parlar di un autore per averne letto un brano in una antologia. Veder tutto; tutte le opere, le lettere, la persona. I fatti della vita, le malignità dei contemporanei; sentire la qualità dell’animo, del pensiero e dello stile: come sento, non per imparaticcio letterario, ma per istinto – anche se la parola non mi soccorra sempre e subito a definire – chi è mio fratello e chi è la mia serva ». Questo il sovrano criterio che rimarca le sue incursioni. I volumi che ne compaginano gli esiti sono Scritti critici (1910) e Le lettere (1913); Esame di coscienza di un letterato (1915) uscì postumo in ottobre, nel numero della “Voce” interamente dedicato a Serra. I saggi erano ripresi da giornali e riviste, secondo una consuetudine ancora universale. Uno di essi procurò l’accredito in terza pagina e quindi la consacrazione alla fama del prosatore Alfredo Panzini: «quasi il solo, oggi, artista schietto», marchigiano che del romagnolo Serra divenne amico e sodale. Di contro, l’idolo delle cicalate salottiere, l’affabulatore delle dame mondane Luciano Zuccoli non è che «una macchina per produrre merce alla moda».   Sul versante della poesia campeggiano tre figure in primo piano, Carducci Pascoli e D’Annunzio. Il Carducci, suo maestro nell’ateneo bolognese, incarna il manuale per una nuova educazione dello spirito nazionale. Pascoli è la voce poetica più profonda e più nuova dell’evolutiva civiltà italiana. In D’Annunzio – attenti al gioco, lettori – «è una gran facilità di eloquio, dalla natura: e potenza di esprimere nella parola tutto quello che alla parola, come per sé stante e sonante, si può chiedere. Ma l’animo è vano e piccino, quando egli si sta a sentire. Del resto moti beati sorgono talora nel canto; ma la prosa è falsa. Quando pure tu non riesca a ridurla in qualità nativa, purgata di ogni uso e di ogni valore. In fine, è noioso» (a Luigi Ambrosini, 10 settembre 1910).  Stranamente, Serra tace sul Verga. Si rifugia invece consolato nella sublimazione del Manzoni: «Per il pudore che è il gastigo della forza vera, sono sempre col nostro (oh, come nostro!) Don Lisander» (a Carlo Linati, 21 agosto 1914). La bibliografia è folta e prensile, a cominciare dall’Epistolario, a cura di L. Ambrosini e G. De Robertis, edito da Le Monnier nel 1934, cui seguirono nel 1938 presso il medesimo editore Gli scritti di Renato Serra, in due volumi, a cura di A. Grilli e G. De Robertis. Chi voglia riprendere il discorso intorno al faro che dalla provincia proiettava fasci di luce sulle metropoli degli ingegni, troverà in articoli rassegne e monografie una messe di preziosi contributi. L’attualità di Renato Serra vive anche in questa staffilata: «Il numero della gente che studia e scrive – e fa professione di ciò – è cresciuto all’infinito. Le folle non possono accogliere altro livello che levato sulla parte più bassa: regolano il loro passo sul più lento. Virtù letterarie son diventate quelle che eran consentite ai più meschini, ai vili, ai mediocri. Non si scrive più per essere letti, ma per essere giudicati come in un concorso» (a Luigi Ambrosini, gennaio 1909). Annuncia il nostro presente.