Antologia. Realtà e libertà: la lezione di Péguy
Charles Péguy
Péguy è stato un grande genio cristiano, e colpisce tanto il suo modo di parlare di Cristo, che per lui è l’avvenimento degli avvenimenti, quel fatto particolare che ha segnato per sempre la storia. Sono indimenticabili per me le pagine in cui descrive l’irrompere nel tempo dell’eterno: «C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani, in quel culmine della dominazione romana. Ma Gesù non si sottrasse affatto. Non si ritirò affatto. […] Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per piagnucolare e accusare la cattiveria dei tempi. Eppure c’era la cattiveria dei tempi, del suo tempo.
[…] Lui vi tagliò (corto). Oh, in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. […] Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.
Loro (altri) invece vituperano, raziocinano, incriminano. Come medici ingiuriosi, che se la prendono con il malato. Accusano le sabbie del secolo, ma anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo si versava inesauribile una fonte, una fonte di grazia». Come è pertinente alla nostra epoca piena di risentimento questo modo di descrivere l’inizio del cristianesimo. L’essere contro non appartiene alla natura della fede; Cristo stesso lo documenta: invece di accusare la cattiveria dei tempi – ci ricorda Péguy –, pone nel mondo l’attrattiva della Sua presenza che non lascia indifferente nessuno.
Per questo il cristianesimo ha una concretezza inaudita – carne e sangue –. Da questo punto di vista, sono strepitose le parole che utilizza per descrivere l’entrata del Mistero nel mondo: «Perché l’incarnazione fosse piena e intera, perché fosse leale, perché non fosse limitata o fraudolenta bisognava che la sua storia fosse una storia di uomo, sottomessa allo storico, e che la sua memoria fosse una memoria di uomo, umanamente, difettosamente conservata. In una parola, bisognava che la sua stessa storia e la sua memoria fossero incarnate. [...] Bisognava che nei tempi, per la stessa categoria di uomini, e davanti alla stessa categoria di uomini, Gesù fosse sempre lo stesso uomo, pienamente uomo, esattamente uomo, perseguitato, esposto, più che interrogato, braccato. Questo è uno degli aspetti del mistero dell’incarnazione».
In queste pagine di Péguy possiamo rintracciare due grandi amori, gli stessi che hanno infiammato l’uomo dell’epoca moderna: l’amore alla ragione e l’amore alla libertà. In questo è veramente un moderno, ma un moderno che la fede ha reso capace di usare la ragione e la libertà in un modo tutto diverso. Diversamente dal razionalista, che sempre cerca di imporre i suoi schemi alla realtà e usa la ragione come misura di tutte le cose, Péguy ha coltivato una “ragione aperta”, che impara costantemente dalla realtà: «Un realista non dà mai […] dimostrazioni; come potrebbe darle? Quando ha ragione, tutti sanno bene che non è lui ad avere ragione, perché è la realtà che è in lui ad aver ragione; seguire la realtà, devotamente: non è difficile seguire la realtà». In questo senso, sono certo che Péguy sottoscriverebbe le parole di un suo grande connazionale, Jean Guitton, che ha scritto: «“Ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza» ( Arte nuova di pensare). Perché? Perché «la realtà si rende evidente nell’esperienza» (Luigi Giussani, In cammino. 1992–1998).
Questo significa essere disponibili a imparare costantemente da ciò che accade, fino a cambiare: «L’uomo che vuole rimanere fedele alla verità deve diventare incessantemente infedele a tutti gli incessanti, successivi, instancabilmente risorgenti errori». Deve, insomma, amare la verità più di se stesso, più delle immagini che si fa di essa. Quanto alla libertà, è insuperabile l’apologia che ne fa, mettendo sulla bocca di Dio queste parole: «A questa libertà, a questa gratuità ho sacrificato tutto, dice Dio, al gusto che ho di essere amato da uomini liberi, liberamente, gratuitamente, da veri uomini, virili, adulti, fermi».
In questo libro ci sono pagine che parlano della libertà come elemento fondamentale dell’esperienza cristiana. Pensiamo a come devono averle lette i suoi contemporanei, che della Chiesa avevano un’immagine esattamente opposta, vale a dire come nemica della libertà dell’uomo perché troppo pericolosa, che per questo deve essere tenuta sotto controllo a suon di obblighi e divieti morali.
Scrive dunque Péguy: «Tutto il vostro sistema – dice riferendosi alla natura del cristianesimo – è fondato perché ci sia e riguardo al quale ci sia un rischio; e un rischio totale; bisogna che l’uomo scelga in tutta libertà. Bisogna dunque, bisogna che ci sia alla fine, bisogna che resti in ultima analisi un rischio, che ci sia un rischio, che rimanga un rischio, totale; […] Affinché, poiché in definitiva, in ultimissima analisi bisognava che l’uomo potesse scegliere e pronunciarsi liberamente; in tutta, in piena libertà».
Questo è cruciale per Péguy: Dio non si è imposto all’uomo, ma si è proposto disarmato, in modo che la sua ragione e la sua libertà fossero provocate a rispondere. Péguy ci ricorda dunque che negare la libertà significa contraddire il metodo di Dio, al quale Cristo stesso si è sottomesso: «Sarebbe infatti apparso strano vedere che quella libertà, che è il centro stesso dell’uomo, e la più bella creazione di Dio nell’uomo, e la più irrevocabile, e la più necessaria, poiché essa sola si articola esattamente sulla gratuità della grazia, rimanesse bloccata per un uomo, e che lo rimanesse per Gesù. È per un pieno gioco della sua libertà e della sua volontà che si è fatto uomo, che è diventato uomo: et homo factus est. […] Tutto l’avvenimento della sua vita e del suo martirio e della sua morte era libero, consenziente, volontario e voluto. Fino all’ultimo momento era libero di non morire per la salvezza del mondo».
C’è qualcosa di più esaltante per un uomo dei nostri giorni che accettare la sfida della libertà suscitata dall’impatto con una tale libertà?