Il caso. Razzismo e inclusione, i fantasmi dell'Opéra
Il Teatro dell’Opéra di Parigi
L’opera lirica, se vuole mantenere il suo prestigio e la sua influenza culturale, deve diventare meno razzista e più inclusiva. «L’opera occidentale è nata in Italia nel 1600 e si è sviluppata nei secoli successivi. La sua storia è in parte collegata ad una produzione delle conoscenze e delle credenze riguardo ai mondi extra-europei strettamente legata alla loro colonizzazione ». Sono le prime righe di un Rapporto che indaga la persistenza di stereotipi razzisti nel melodramma. Su commissione della direzione dell’Opéra di Parigi lo hanno scritto Pap Ndiaye e Constance Rivière: lui, padre senegalese, madre francese, è uno storico specializzato in storia sociale delle minoranze; lei, scrittrice e funzionaria pubblica, è segretaria generale del comitato per la Difesa dei diritti. La decisione è stata presa dopo l’uccisione a sangue freddo da parte della polizia degli Stati Uniti, lo scorso 25 maggio, dell’afroamericano George Floyd: «La maggior parte delle grandi istituzioni culturali americane (opera, teatri, musei) e alcune in Europa hanno manifestato la loro simpatia per il movimento Black Lives Matter e si sono impegnate a riflettere sulle forme di discriminazione razziale e di razzismo che persistono nel mondo della cultura». Le 66 pagine di questo “Rapporto sulla diversità”, il primo sull’argomento, partono da un dato di fatto innegabile, ma sottaciuto: molti titoli anche del repertorio più popolare sono irriverenti e derisori verso i popoli e le culture non egemoni. Nel Trovatore di Verdi, le zingare rapiscono e bruciano bambini; in Madama Butterfly di Puccini non si condanna l’ufficiale della marina degli Stati Uniti Pinkerton, pedofilo e predatore sessuale di una minorenne che gli viene venduta, mentre le usanze tradizionali giapponesi sono rappresentate in modo derisorio; in Turandot la storia della Cina è ridotta a macchietta: «O China, o China, / che or sussulti e trasecoli inquieta, / come dormivi lieta, gonfia dei tuoi settantamila secoli!». Otello deve per forza essere truccato con un forte fondotinta nero, anche se il libretto lo indica come «moro»? In uno dei balletti più amati, La Bayadère, è indispensabile parlare di «danza dei negretti »?. E all’inizio del secondo atto della verdiana Aida così prescrive la didascalia: «Giovani schiavi mori danzando agitano i ventagli di piume».
Aspra la reazione della storica dello spettacolo Isabelle Barbéris, nemica del «politicamente corretto», intervistata da Le Figaro, che banalizza il rapporto come una manovra di depistaggio «Il vero problema dell’Opéra di Parigi è lo stato dei conti, quasi fallimentare. Questo marketing postcoloniale mette sulla graticola l’insieme del repertorio, con un invito a rivedere il contenuto di libretti e partiture ». In verità, Pap Ndiaye e Constance Rivière scrivono in maniera inequivocabile che non intendono modificare una riga dei testi o della musica, piuttosto sentono l’esigenza di contestualizzare le opere per «rappresentare meglio la diversità sulla scena, interrogando il repertorio e i suoi riverberi nel mondo contemporaneo». E invitano a non dare nulla per scontato: perché le calze bianche delle ballerine vengono indicate di color «carne, anche se i colori della carne non sono soltanto bianchi»? Perché inevitabilmente bianchi sono i tutù e le scarpette delle danzatrici nere o meticce? Perché i prodotti per il trucco sono pensati sempre e soltanto per pelli bianche? Gli autori citano episodi di discriminazione avvenuti in passato e ricordano il caso del compositore e direttore d’orchestra Joseph Bologne de Saint- George, vissuto nel Settecento, che doveva essere nominato direttore dell’Académie royale de Musique a Parigi. La candidatura cade appena tre star della danza del tempo, Sophie Arnould, Rosalie Levasseur e Marie-Madeleine Guimard, s’indignano con la regina Maria Antonietta: un simile incarico non può essere affidato al figlio di una schiava negra e «il loro onore e la loro coscienza non permetteranno mai di essere sottoposte agli ordini di un mulatto». Negli stessi anni viene pubblicato Poems on Various Subjects di Phillis Wheatley, ragazza africana di diciannove anni, venduta come schiava quando ne aveva otto e comprata da un commerciante di Boston. Il primo libro di poesie scritto da una schiava suscita un ampio dibattito, perché sono in molti a ritenere la circostanza impossibile. Ci vorrà una decisione del tribunale di Boston per autorizzare la pubblicazione.
Ma il Rapporto, ed è la sua parte più propositiva, si interroga anche sul futuro possibile per l’opera in un contesto multietnico e mentre le disuguaglianze sociali, già vertiginose, continuano ad aumentare. Perché non cercare talenti – nella musica, nel canto, nella danza – anche al di fuori dei luoghi tradizionali e cioè i Conservatori e le accademie di eccellenza? Le ragazze e i ragazzi delle periferie francesi, segnate da disagio e tensioni, hanno qualità splendide che attendono l’occasione per venire valorizzate mentre, per difficoltà economiche o per non aver accesso alle informazioni necessarie, sono di fatto esclusi da questa possibilità. Il Rapporto contiene un esplicito invito agli altri teatri europei ad aprire una simile riflessione. Qualche sovrintendente risponderà all’appello, avrà la determinazione per avviare, coinvolgendo i propri dipendenti, il proprio pubblico, una discussione al riguardo? Oppure sarà l’Agis, la principale associazione dello spettacolo italiano, grazie all’autorevolezza del suo attuale presidente, a prendere l’iniziativa?