Il libro di Scavo. «Così le truppe russe rapivano i bimbi». Storie dall’Ucraina
Bambini lasciano a bordo di un treno la regione di Kursk, durante l’offensiva russa in territorio ucraino
Da ottobre a novembre, Nello Scavo presenterà un po’ in tutta Italia il suo libro Il salvatore di bambini in uscita per Feltrinelli (pagine 144, euro 16,00; anticipiamo qui uno stralcio). Così da una delle città più martoriate dalla furia di Putin, la vera storia dello “Schindler ucraino”: “I bambini non sono un bottino di guerra”. I primi appuntamenti saranno: giovedì 24 ottobre ore 19:00 a Rovereto (Sala della Fisarmonica, Corso Rosmini 86) con Giorgio Gizzi, sabato 9 novembre ore 11:00 a Prato (Centro Pecci Book Festival) con Giacomo Cocchi e Adriano Sofri, domenica 10 novembre (ore 17:00 a Milano, Teatro Franco Parenti) con Stefania Battistini e infine lunedì 11 novembre (ore 18:00 a Bologna, alla Biblioteca Salaborsa) con Matteo Lepore.
Per mesi non avremmo saputo nulla di quel che accadeva a Kherson, e di come Volodymyr Sahaidak avrebbe affrontato i ladri di bambini. La città era stata conquistata dalle forze di occupazione russe nei primi giorni di guerra. Ero a Kyiv, asserragliato nella residenza dell’ambasciatore italiano, mentre i battaglioni di Mosca tentavano di prendere d’assedio la capitale.
L’invasione era cominciata il 24 febbraio del 2022 con centosessanta missili e settantacinque incursioni aeree. Non arrivavano notizie di come andassero le cose sulla linea del fronte meridionale. Improvvisamente, le informazioni smisero di circolare. I siti Internet dei giornali locali erano stati bloccati o non venivano più aggiornati. Naturale, pensavo. Sono scappati tutti, o almeno ci stanno provando. Oppure non hanno modo di collegarsi alle redazioni.
Da giorni raccoglievo voci difficili da verificare. Perché in guerra non c’è niente che sia semplice da accertare. A pochi chilometri da dove mi trovavo città come Bucha e Irpin erano già state conquistate e brutalizzate. Lo sapevamo dalla rete di fonti organizzata in tutta fretta e che spesso staccava il telefono anche per una settimana di fila. Girava voce, e subito era diventata leggenda, che i droni spia russi potessero intercettare le comunicazioni. Difficile da credere, impossibile da ignorare.
Una cosa era certa: al confine orientale erano stati allestiti dei campi di filtrazione; venivano portati lì, volontariamente o con la forza, i civili che dal Donbass sarebbero stati trasferiti in territorio russo. Alcuni ci finivano perché l’unica fuga possibile dal fuoco incrociato era stata predisposta verso la Russia; altri perché credevano che Mosca, nonostante tutto, fosse la casa madre e che i russi volessero solo prendersi la terra, senza fare del male a un popolo fratello.
Chi da anni studiava i discorsi e le mosse di Putin, però, non si faceva illusioni. L’espansione sarebbe stata solo questione di tempo. Dall’altra parte del confine, lungo la nuova “cortina di ferro” tra Oriente e Occidente, provenivano informazioni contrastanti. Alcuni attivisti sostenevano perfino che erano stati allestiti dei convogli ferroviari speciali per trasferire i civili ucraini a migliaia di chilometri di distanza. Soprattutto donne e bambini. (...)
Chiamai l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per la protezione dell’infanzia. L’amico che di tanto in tanto mi passa documenti riservati rispose con il solito malanimo. Ma stavolta il problema non era il giornalista scocciatore: a togliergli il sonno era la sorte dei bambini di cui si perdevano le tracce. «I russi non rispondono», mi disse. «Fingono di non sapere oppure prendono tempo, ma quando sparisce un bambino di un anno, il tempo è l’unica cosa che non abbiamo», aggiunse proponendomi il solito patto: «Se vieni a sapere qualcosa, chiamami. Io farò lo stesso».
Il ministero degli Esteri ucraino aveva denunciato il trasferimento illegale di 2.389 bambini dal Donbass alla Russia. «I casi di rapimento e di altri crimini commessi dagli occupanti russi contro i civili in Ucraina sono oggetto di indagine», riportava il “Kyiv Independent” con cadenza quasi giornaliera. All’inizio della guerra nessuno sapeva quale fosse la situazione a Kherson. Per noi era impossibile arrivarci. Io volevo andarci a ogni costo, a patto di avere una chance di tornare vivo. Ma la guerra decideva per noi, e tra noi e Kherson c’erano i russi. Gli ucraini non ci lasciavano passare, e i russi non ci lasciavano avvicinare. Un paio di giornalisti hanno tentato la sorte, con esiti infausti: due guide locali sono state uccise mentre accompagnavano i reporter stranieri. (...). C’ero arrivato in primavera, dopo che i russi erano stati respinti da Mykolaïv ed erano dovuti scappare attraverso un fossato convertito in latrina. Adesso era diventata la base di partenza delle ambulanze militari. A distanza di oltre due anni, rivedo ancora il soldato dai capelli bianchi che mi viene incontro. Quando i paramedici militari lo prelevano dalla trincea, l’uomo ha la pressione così bassa da far temere un collasso. È stanco, ma vorrebbe restare al fronte per respingere l’attacco russo da Kherson, ancora interamente occupata. Mi racconta che l’applicazione di nuove tecniche di guerriglia alla fanteria sta mandando in confusione l’artiglieria di Mosca. Mentre raggiungiamo le linee avanzate di Shevchenkove, vediamo un continuo spostarsi di cannoni, obici, carri armati che sbucano dalle campagne e vengono caricati sui camion. Poi, a tutta velocità, questi li faranno sbarcare su altre trincee. Si colpisce da una parte ma, quando le forze russe reagiscono, la fanteria si è già spostata ed è pronta ad aggredire un altro fianco (...).
In realtà stavo seguendo gli adulti per cercare storie sui bambini. La leggenda delle sparizioni mi sembrava una carta fin troppo facile da giocare per la propaganda (...). D’altra parte conoscevo le guerre di Putin. Avevo visto cosa è capace di fare un battaglione russo in Siria. Avevo letto ogni riga dei reportage di Anna Politkovskaja. Ricordavo le corrispondenze di Antonio Russo, il giornalista di Radio Radicale che nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000 venne ucciso in Georgia, dove si trovava per documentare la guerra in Cecenia. Avrei scoperto che Volodymyr non è quel tipo di burocrate che si preoccupa del nodo alla cravatta quando deve ricevere gli ospiti. Volodymyr non parlava molto di sé. Non per diffidenza e neanche perché avesse qualcosa da nascondere. Semplicemente, Volodymyr aveva qualcuno da nascondere, anche ai giornalisti. E il suo silenzio era la pista da seguire.