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Mare di Libri. La scrittrice Janne Teller: «Dobbiamo raccontare il mondo ai ragazzi»

Alessandro Zaccuri mercoledì 14 giugno 2017

Janne Teller scrive libri che non si dimenticano facilmente. Come Niente (in Italia è uscito da Feltrinelli nel 2012), storia di un microcosmo adolescenziale dove l’indifferenza finisce per sconfinare nella violenza. O come Immagina di essere in guerra (pubblicato sempre da Feltrinelli nel 2014: in entrambi i casi la traduzione è di Maria Valeria D’Avino), nel quale la mappa del Mediterraneo viene bruscamente capovolta: adesso sono i bambini d’Europa a fuggire con le loro famiglie verso le sponde del Maghreb, sperimentando sofferenze e pregiudizi.

Danese di nascita, economista di formazione e cosmopolita anche grazie alla lunga di collaborazione con organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite e la stessa Unione Europea, Janne Teller sarà nei prossimi giorni fra i protagonisti di Mare di Libri, il festival letterario per adolescenti che dal 2008 si svolge ogni estate a Rimini. In quell’occasione l’autrice dialogherà con i giovanissimi lettori che negli anni hanno dimostrato di apprezzare molto la franchezza che caratterizza la sua produzione. « Niente è la storia che mi sarebbe piaciuto leggere quando avevo quattordici anni – dice –, anche se poi mi sono resa conto che di quella stessa storia avevo bisogno quando l’ho scritta nel 2000, all’età di 35 anni. Ne avrò bisogno sempre, perché non smettiamo mai di interrogarci sul senso della vita. Mi immedesimo in ciascuno dei personaggi, indipendentemente dall’età, il sesso o la personalità. Scrivo quello che sento vero in quel momento, semplicemente. Nel caso di Niente è stato come se le prime righe me le avesse sussurrate all’orecchio la voce del protagonista, Pierre Anthon: “Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so. Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso”. Ho cercato di dimostrargli che si sbagliava, provando a immaginare come avrebbero reagito i suoi compagni di classe. La storia è nata così».

Al suo apparire, il romanzo ha suscitato reazioni molto discordanti. «Si andava dal “proibite questo libro” a “questo libro mi ha salvato la vita” – ricorda la scrittrice –. Gli adulti di solito la pensavano nel primo modo e i ragazzi nel secondo. In generale la lettura del romanzo cambia il modo in cui ciascuno guarda alla propria vita e obbliga a domandarsi che cosa sia veramente importante. Sono convinta che in quella storia, anche in mancanza di un lieto fine, si intraveda comunque uno spiraglio di speranza. Gli adulti, in ogni caso, tendono a sentirsi provocati in modo più diretto. Credo che questo accada perché, crescendo, si prendono molte decisioni, che con il tempo diventano irrevocabili. Ed è terribile pensare come sarebbe stata la nostra vita se dieci, venti o trent’anni fa avessimo imboccato la strada sbagliata. È molto più facile difendere le proprie scelte, senza interrogarsi sui valori e le priorità che le hanno guidate. I giovani, al contrario, non hanno questo problema. Si concentrano su quello che più conta per loro e cercano di capire come scegliere di conseguenza. Per i ragazzi le grandi questioni esistenziali sono parte naturale di questo processo. Solo in seguito, un po’ per volta, si viene catturati dalle convenzioni sociali, dalle istituzioni, dagli obblighi. A quel punto farsi troppe domande diventa pericoloso».

La prima ad avvertire la responsabilità di un atteggiamento così esigente è la stessa Teller. «Mi sforzo di tener conto dell’età dei destinatari – spiega – e per farlo cerco di immaginare com’ero io a quell’età. A mio parere i ragazzi possono leggere su qualsiasi argomento o quasi. Sono attratti da temi molto seri, il nostro compito consiste nel presentarglieli nel modo migliore. La maggioranza degli adolescenti comprendono molto bene che c’è qualcosa di sbagliato nella mentalità competitiva delle nostre società, ma non sanno dove trovare un significato più profondo. Il dialogo con loro deve partire da qui». Anche da questo punto di vista, l’esperienza internazionale è stata molto importante per la scrittrice. «Al di là dell’opportunità di conoscere altri stili di vita – afferma –, per me è stato decisivo imparare a separare l’aspetto culturale del comportamento dalla profonda umanità delle persone. È questo aspetto che lascia intendere il significato autentico di ogni singola azione. Proprio perché ho visto come va il mondo, ho imparato a a contare sulle persone più che sulle istituzioni. Mi riferisco a una persona che abbia una sua integrità, un’anima, un temperamento in cui siano presenti il coraggio e la volontà di spendersi per il bene di tutti, anche quando questo significa andare contro il proprio tornaconto o il proprio interesse. E questo vale a tutti i livelli, dalla donna delle pulizie al presidente di una nazione. Chi fa afscrittore fidamento solo sul potere e sulle gerarchie sociali non riuscirà mai a cambiare il mondo, tutt’al più vorrà mantenere lo status quo da cui dipende la sua posizione».

Janne Teller ha idee molto chiare anche sull’efficacia della letteratura. «È un modo non minaccioso per invitare le persone nelle vite degli altri – suggerisce –. In Immagina di essere in guerra, per esempio, si trattava delle vite dei rifugiati. La letteratura non ammonisce, non si mette a puntare il dito. Non rappresenta un pericolo, si limita a raccontare una storia. E lo può mettersi in ascolto, indipendentemente dall’orientamento politico. L’unico modo per diventare un po’ più saggi è costituito dall’esperienza, fosse pure l’esperienza di immaginarsi nella vita di qualcun altro: bene, la letteratura ha lo straordinario potere di farci sperimentare, almeno in parte, una vita che non ci appartiene. In questo caso, di farci capire meglio quali drammi deve affrontare una persona quando diventa un rifugiato. Come ci sentiremmo noi, se ci trovassimo in quella situazione. Ritengo che questo finisca per cambiare il nostro atteggiamento verso gli stranieri a livello sia personale sia politico». Quest’ultima è una dimensione che affiora a più riprese nel dialogo con Janne Teller: «Ogni nostra azione nella sfera pubblica ha un’implicazione politica – rivendica –. Se riveste un minimo di importanza, ogni gesto finisce per entrare in relazione con la visione che gli altri hanno del mondo, provocando così ricadute di natura politica. In sé, la scrittura letteraria si risolve in una ricerca della verità che non ha niente a che vedere con la politica, ma che riguarda semmai quanto c’è di più universale nell’umanità. Una volta pubblicato, però, quello che abbiamo scritto inizia a essere assimilato dal lettore, influendo sulla sua percezione della vita e della realtà, con tutte le conseguenze politiche che ne possono derivare. Magari capita con una piccola poesia sulla natura, oppure con un grande romanzo di critica sociale. Ma capita, a cambiare è soltanto il modo».