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Giornata dei disturbi alimentari. Rachel Aviv: «Non lasciamoci definire dalla malattia»

Eugenio Giannetta sabato 1 giugno 2024

La giornalista Rachel Aviv, autrice di “Stranieri a noi stessI”, pubblicato in Italia di Iperborea

La scrittrice Elif Batuman ha detto di Stranieri a noi stessi (Iperborea, pagine 288, euro 19,00) che «cambierà il modo in cui ogni lettore guarda alla malattia, al rapporto delicato fra diagnosi e identità». Ha ragione Batuman, perché il libro della giornalista statunitense Rachel Aviv è rivoluzionario proprio in questo senso. Parte da una storia personale, per allargarsi a una collettiva, al potere delle storie di vita: Aviv ha sei anni quando viene ricoverata con una diagnosi di anoressia. Passano poche settimane e, quasi per caso, ricomincia a mangiare. L’anoressia rimane un capitolo chiuso, una parentesi. Ma cosa sarebbe successo se – come le sue compagne di reparto già adolescenti – anche lei avesse iniziato a pensare a sé stessa nei termini della malattia diagnosticata? Aviv raccoglie allora cinque storie di coraggio e resistenza, tenacia e ribellione, che alla vigilia del 2 giugno, Giornata mondiale contro i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, risultano essere ancora più illuminanti. Con Rachel Aviv abbiamo parlato di questo ma anche di tanto altro, a partire dalla sua esperienza e dalle storie raccolte nel libro, allargando la riflessione al tema dell’identità e al tabù che spesso, ancora oggi, c’è sulla salute mentale: «Se penso a posti come New York – dice Aviv – per esempio riguardo all’assunzione di farmaci e al modo in cui vengono assunti antidepressivi, mi viene da pensare che sia diventato molto più comune parlare di salute mentale, come se non ci fosse stigma o tabù. Credo sia diventato più comune parlarne apertamente e anche usarla come un modo per identificarsi, come una sorta di incarnazione di identità».

Forse uno dei problemi nella comunicazione sui disturbi mentali è la semplificazione?

«Credo ci siano molti modi diversi di parlarne, così come ci sono quadri clinici diversi o modi diversi di comprendere il disagio di qualcuno. Il tema è che solo perché qualcuno ha una diagnosi, non significa anche escludere il fatto che ci possano essere altri fattori da tenere in considerazione, per esempio economici, che influenzano la loro salute mentale, oppure fattori sociali o spirituali».

Lei si occupa di salute mentale da alcuni anni. Quando ha pensato di scrivere questo libro?

«Nel 2010 ho iniziato a lavorare a una storia su alcuni giovani che si trovavano ai primi stadi della psicosi. Ricordo di essere rimasta molto colpita dal fatto che una delle cose con cui queste persone lottavano di più era la sensazione di essere soli e vivere esperienze che non riuscivano a tradurre in parole, come se ci fosse qualcosa di impossibile da comunicare sulla natura della loro esperienza. Ricordo di aver pensato che era un argomento che volevo esplorare perché c’era bisogno di avere più parole, e perché mancavano i modi per esprimere l’esperienza. E poi, forse cinque o sei anni dopo, stavo lavorando a una storia per il “New Yorker” su alcuni bambini svedesi che avevano una strana sindrome, chiamata sindrome della rassegnazione, in cui smettevano di mangiare, di muoversi e partecipare alla vita sociale. Ricordo di essere rimasta incuriosita dalla loro condizione e di aver pensato che fosse in qualche modo simile alla mia esperienza di bambina a sei anni, quando anch’io ho smesso di mangiare per un periodo. A quel punto, credo di essermi interessata a come la storia che raccontiamo sul disagio possa effettivamente plasmare il corso di quel disagio e la forma che assume. E così questa è diventata la domanda guida del libro, quella che mi ha spinto a scriverlo».

Tornando al tema dell’identità, nel libro scrive che la malattia per lei non è mai diventata una carriera.

«Sì, penso spesso che arriva un punto in cui una malattia si trasforma in un’identità e penso che a volte per alcune persone questo possa essere davvero positivo, come se avessero trovato un posto e andasse bene, come se desse loro un senso di comunità. E poi penso che per altre persone, o in altri momenti della loro vita, possa sembrare che quell’identità li intrappoli, che li limiti e che improvvisamente non sappiano chi sono al di fuori della malattia, e questo è pericoloso perché significa che la guarigione è una perdita di identità e di respiro».

Nei disturbi dell’alimentazione, così come in altri disturbi, un altro ruolo chiave è giocato dalle famiglie.

«Sì, credo che una cosa che ho notato pensando a tutti i capitoli che ho scritto è che il percorso di guarigione o meno delle persone è stato influenzato dal senso di parentela con qualcuno, non necessariamente un medico. Nel caso di Naomi si trattava di una bibliotecaria del carcere che era davvero in grado di vederla e di capire il modo in cui pensava a sé stessa e alla sua malattia. Per Laura si trattava di persone con una mentalità simile alla sua, che lottavano anch’esse con l’identificazione eccessiva con la propria diagnosi. Penso che la solitudine in sé, poiché non è vista come un problema medico, sia forse poco esplorata come un fenomeno psichico che può esacerbare».

Come crede si dovrebbe parlare oggi di malattia?

«Parlare della malattia solo come uno squilibrio chimico è stato utile per ridurre lo stigma in una certa misura, ma ha creato anche questa situazione in cui le persone sentono che la malattia mentale è una cosa permanente, invece di qualcosa che nasce dalla comunità e che può cambiare la vita e può anche farti sentire meglio».