Agorà

Calcio. Giovanni Raboni, la vera poesia del tifoso nerazzurro

Massimiliano Castellani venerdì 21 giugno 2024

Giovanni Raboni

Il calcio di poesia si nutre di visioni diverse e distanti da quelli degli occhi del semplice tifoso da ultimo stadio, quello che qui da noi ha sempre tifato contro e mai per il calcio. Fatta questa breve ma dovuta premessa leggiamo: «Allo stadio andavamo presto, non volevamo perdere la partita prima della partita…». Sono i versi di una delle cinque poesie dedicate al calcio. No, non quelle ormai epiche di Umberto Saba che simpatizzava per gli Alabardati della sua città (Trieste) ma tranne che per esercizi di stile non fu mai un vero calciofilo, mentre si tratta dei componimenti di un degnissimo poeta, anche del gol, quanto Pier Paolo Pasolini, nonchè tifoso dell’Inter, Giovanni Raboni. A lui è dedicato l’appassionato e certosino lavoro curato da Rodolfo Zucco: Giovanni Raboni Scritti sul calcio 1979-2004 (Mimesis. Pagine 140. Euro 14,00) che nel titolo è preceduto da un epitaffio emblematico riguardo all’amore che il Poeta nutriva per il calcio e per la sua Beneamata: “Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita”.

Primo dei tanti colpi di tacco, anzi delle “rabone” (specialità di casa Zidane) poetiche di questa voce autorevolissima inserita nelle antologie della nostra poesia. Dell’interismo di Raboni ero stato edotto con gustosi particolari da mastro Gianni Mura, anche lui cuore nerazzurro - diviso a metà negli ultimi anni dalla simpatia per il Chievo Verona - che ne apprezzava la poetica e la vicinanza, anche di casa, dalle parti della Stazione Centrale: Mura stava in via Settala, Raboni aveva vissuto a lungo in via San Gregorio, dove un tempo passavano i binari. A vent’anni dalla morte del poeta milanese (16 settembre 2004), ma anche traduttore di tutta la Recherche di Proust, drammaturgo, critico teatrale e fine editorialista del “Corriere della Sera” (gli articoli sul calcio sono tratti dalle colonne del quotidiano di via Solferino), il suo sguardo, vista prato di San Siro, è sicuramente il più originale, quanto raro, che si possa rintracciare dopo la raccolta degli esordi, Il catalogo è questo: quindici poesie, (Lampugnani Nigri, 1961).

Il piccolo Raboni, classe 1932, entra in uno stadio da bambino prima della guerra, in un rito di iniziazione nemmeno troppo appassionante: all’Arena dove allora giocava l’Ambrosiana, fascistizzazione del nome Internazionale, entrò accompagnato dal padre spettatore distratto, quasi indifferente alle sorti dei nerazzurre e dal fratello maggiore (di «quattro anni e cinque mesi») Fulvio. Ma la passione per la rediviva Internazionale, in Raboni scattò viscerale nel dopoguerra quando era un distratto liceale del Parini: «Credo fosse il ’47, era un inverno freddissimo, con molta neve». Di quella stagione non perde una partita allo stadio per seguire una squadra di «bidoni» e di improbabili campioni sudamericani in fuga, chissà da dove. Era l’Inter del presidente Carlo Masseroni e l’11 nerazzurro, alla cui guida si alternarono, con stesse sfortune, i mister Carlo Carcano, Dai Astley e la vecchia gloria mondiale Giuseppe Meazza, in attacco schierava il «catastrofico» centravanti Elmo Bovio («giocava con un basco in testa e se gli cadeva si interrompeva l’azione») e il suo primo idolo adolescenziale, Bibiano Zapirain: uruguayano, forse 50enne, azzarda il Poeta, in quanto «seriamente sospettato di avere dichiarato dieci anni di meno di quelli che aveva». Eppure quella formazione tragicomica per Raboni significò il massimo dell’attaccamento alla sua squadra del cuore. Quell’Inter che rischiò di finire in B (poi si riprese e chiuse in bellezza) l’ha amata assai più di quella del tandem vincente Angelo Moratti-Helenio Herrera che trionfava in Italia, in Europa e nel mondo.

Perché lo sguardo alternativo del Poeta vide in quello squadrone davvero internazionale una macchina perfetta che «era fatta per soddisfare i tifosi ingenui e di buona bocca che si esaltano solo alla vittoria, ma lasciava perplessi e un po’ annoiati i suoi tifosi veri tipici che non sono contenti se non si sentono un po’ sorpresi, un po’ ingannati, un po’ traditi dalla squadra del cuore».
La scatola onirica, che uscirà a settembre per Mondadori: «Conobbi Raboni nel ’70 e con lui a San Siro ho assistito a tante partite. A dire la verità quell’idea di tifoso che si sente appagato nel dolore, nella sconfitta e dalla lotta per la salvezza, mi sembra una delle sue eleganti provocazioni. Giovanni, come il sottoscritto e Sereni, amava veder l’Inter vincere e possedeva quel sano snobismo che abbiamo tutti noi veri interisti che non sopportiamo la cafoneria. Le ultime partite le abbiamo viste insieme davanti alla tv, alla domenica dopo pranzo e ad entrambi i commenti dei telecronisti ci sembravano che togliessero quel poco di poesia che ancora rimane nel calcio...».

Per Raboni o spettacolo dal vivo è impareggiabile rispetto al calcio in tv. «Che tristezza le partite di calcio alla televisione. Niente prima, niente dopo. Nessuna storia, nessuna realtà in cui inserirle», sentenzia sdegnato il Poeta che detestava quelle telecronache, non ancora urlate e come quelle odierne. Prende le distanze dall’orrido commento tecnico di sottofondo, in cui non concepisce l’arbitrarietà della definizione “bella giocata”. Il suo calcio di poesia già salvava a malapena «il meno irritante di tutti, Bruno Pizzul», rimpiangendo nostalgico «la voce postlittoria» di Nando Martellini. Il Poeta non ama gli steccati ma gli orizzonti sconfinati e quegli spazi infiniti che si aprivano al passaggio di Ronaldo, il “Fenomeno” brasiliano che ha amato e cantato quanto i suoi due campioni veri venuti dopo l’enigmatico Zapirain: l’angelo argentino Angelillo e il più mancino dei funamboli, nonché poeta suo della “foglia morta” (punizione prosaica con parabola ascendente) Mariolino Corso. Ma di Ronaldo il folgorato e folgorante Raboni ha scritto: «Mi sembra che sia qualcosa di più, di ontologicamente diverso di un giocatore, è una forza della natura, o meglio ancora una interpretazione della natura» Chissà se il “Fenomeno” ha mai letto qualche verso del Poeta del gol nerazzurro. Se qualcuno può informarlo sarebbe davvero un atto meritevole perché la venerazione di Raboni arrivò a vaticinare di sue imprese ascrivibili ad «agenti di qualche forza invisibile».

Ronaldo poi nel 2007 passò al Milan e questo a Raboni sarebbe dispiaciuto, l’avrebbe visto come l’ennesimo atto di «generosità» dell’Inter di Massimo Moratti (al quale non perdonava di aver mollato il più poetico e cinematografico dei calciatori, Roberto Baggio), anche se diventando rossonero il “Fenomeno” era entrato nell’area di rigore dei condannati a vincere, status perenne dei tifosi della Juventus. Il Poeta se ne è andato quando il Milan e il Paese completamente berlusconizzato aveva ormai cancellato definitivamente il calcio di poesia. L’unica consolazione degli ultimi tempi era stare a guardare con spirito pietistico il tifoso rossonero che come quello juventino deve espiare la tristezza di «altre vittorie, altri scudetti, altre coppe… Che noia signori! direbbe uno che di queste cose se ne intendeva, il grande Nikolaj Gogol». E la desinenza “gol” del romanziere russo è l’ultimo bagliore del tifoso Raboni, sostenitore estremo della propria vita «di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare ad essere». Il calcio per il Poeta fu l’eterna rimembranza del fanciullino portato per mano dentro al magico tempio della storia di cuoio, ma soprattutto fu metafora esistenziale che realizzò anche nell’ultima poesia di questo libro Vivi, Io e Te, Per quanto?. Versi di pancia e di cuore, scritti in memoria di quel fratello i cui anni di differenza che «una volta davano le vertigini», dinanzi alla morte atterrano Raboni che sente in quell’addio l’avvicinarsi anche del triplice fischio di quella straordinaria partita che è stata la sua vita. Anche con i tempi supplementari a disposizione, il Poeta avverte quel vuoto che è «niente, meno della durata di un’azione, meno del tempo che ci vuole a un mediano di spinta per raggiungere l’area di rigore».