Teatro. Quella relazione fraterna in Vaticano. Colangeli e Rigillo sono "I due Papi"
Giorgio Colangeli (Ratzinger) e Mariano Rigillo 8Bergoglio) in scena ne "I due Papi"
Una relazione inedita, inaspettata e spiazzante, ma mai pericolosa, anzi solidale e cordiale, intima e profonda, feconda e a tratti anche faconda. È stato così il rapporto fra Ratzinger e Bergoglio, perlomeno come Anthony McCarten l’ha voluto tratteggiare ne I due Papi, il testo teatrale che ha avuto una fortuna planetaria una volta traslato nella celluloide e diffuso dalla piattaforma Netflix ottenendo nomination come miglior sceneggiatura agli Oscar e ai Golden Globe grazie anche alle magistrali interpretazioni di Jonathan Pryce e Anthony Hopkins.
A calpestare le tavole dei palcoscenici nostrani nei ruoli rispettivamente di Bergoglio e Papa Benedetto XVI sono due pezzi da novanta del panorama teatrale italiano: Mariano Rigillo e Giorgio Colangeli in questi giorni fino al 30 aprile alla Sala Umberto di Roma. La produzione italiana – unica al mondo autorizzata dall’autore – è firmata dal regista Giancarlo Nicoletti e si avvale della traduzione di Edoardo Erba e dell’imponente scenografia di Alessandro Chiti, che riproduce dai giardini di Castel Gandolfo alla terrazza di San Pietro fino all’immancabile Cappella Sistina. Il merito e il fascino al contempo dell’operazione non risiede in ciò che è arcinoto, ovvero la storica decennale rinuncia al soglio pontificio di Papa Ratzinger, piuttosto nel tentativo curioso e rispettoso di scandagliare il suo animo ipotizzando cosa si sia agitato nel suo cuore e nella sua mente e immaginando un incontro e un dialogo col suo successore.
La bontà e il successo del testo non si basano sulla presunta dialettica fra tradizione e innovazione, Papa conservatore e cardinale riformatore, tutti stereotipi che la Storia ha ampiamente smontato. A dare corpo, credibilità e forza drammaturgica è piuttosto il viaggio all’interno di due coscienze che, seppur immaginario, frequenta e attraversa questioni esistenziali e vitali che coniugano il Cielo e la terra, creano un costante e stimolante confronto fra quotidianità e spiritualità. L’altro elemento vincente del testo, ben valorizzato dalla regia di Nicoletti, è quello della familiarità: i due pastori della Chiesa parlando fra di loro parlano a tutti gli uomini perché non creano recinti teologici, anzi abbattono gabbie, steccati, scavano nelle loro crisi e fragilità, analizzano debolezze e certezze senza mai venir meno all’affidamento al Padre. E a prevalere non è solo il tema del discernimento, se sia «giusto o meno perseverare o se non valga la pena, a volte, scendere dalla propria croce», come inevitabilmente sottolinea il regista. C’è implicitamente anche una sorta di elaborazione della preghiera attribuita a Tommaso Moro che chiedeva al Signore di avere «la forza di cambiare le cose che possono essere cambiate, la pazienza per sopportare quelle che non possono essere cambiate e soprattutto la capacità di saper riconoscere e distinguere le une dalle altre».
Ci sono vertiginose e coinvolgenti disamine sul rapporto tra l’uomo e Dio, su interrogativi etici, sul dubbio se sia più opportuno abbracciare i tempi o “ammettere l’esistenza di un che di immutabile ed eterno”. È indubbio invece che a rendere efficace e accattivante la messinscena contribuisce non poco la maestria della coppia Colangeli – Rigillo che non solo rispecchiano le caratteristiche fisiche di Ratzinger e Bergoglio ma hanno anche fatto un lavoro di introspezione sul personaggio che dona credibilità e verità alle loro interpretazioni. E quell’amicizia, quell’afflato e sintonia ben espressi in scena che caratterizzano il rapporto fra il Papa dimissionario e il futuro Pontefice hanno contagiato anche nel privato i due attori: «È la prima volta che recitiamo insieme, io e Giorgio: ci siamo trovati veramente bene - ammette Rigillo – e per attori con alle spalle una lunga carriera non è un fatto per nulla scontato ». Colangeli conferma: «Io vengo da un percorso molto diverso rispetto a quello di Mariano, mi sono anche messo in una posizione di ascolto e l’intesa è stata perfetta». Entrambi concordano anche sul fatto che non c’è mai stata alcuna diatriba su chi dovesse fare Benedetto e chi Francesco. La scelta era obbligata e dettata da evidenti predisposizioni e peculiarità somatiche. C’è inoltre affinità tra loro anche a riguardo del rapporto con la fede: «Non sono un credente – confessa Rigillo – ma non disdegno confrontarmi con questioni esistenziali a cui non so rispondere; riconosco di aver fatto marcia indietro, ma sinceramente provo gioia nel recitare il personaggio di Bergoglio». Gli fa praticamente eco Colangeli: «Non sono un praticante ma mi piace rappresentare la figura del prete perché è un personaggio che ha una forte rilevanza sociale, che può far star meglio la gente. E comunque io vedo nel teatro una forte similarità con la religione soprattutto nel tentativo di trascendere il quotidiano e il contingente e di agganciarsi a qualcosa di più duraturo».