Il 25 aprile 1933, Sigmund Freud ricevette nel suo studio viennese due personaggi italiani, venuti per un consulto: si trattava dello psicoanalista ebreo triestino Edoardo Weiss e del drammaturgo Giovacchino Forzano. Al termine dell’incontro, i due visitatori donarono al padre della psicoanalisi un volume contenente la traduzione tedesca di una raccolta di drammi dello stesso Forzano scritti in collaborazione con Benito Mussolini. Freud contraccambiò con una copia, diretta al Duce, del suo
Warum Krieg? (Perché la guerra?), scritto a quattro mani con Albert Einstein. La dedica, vergata dall’autore, era assai impegnativa e recitava testualmente: «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà». Ignoriamo se il Duce lesse mai il libro inviatogli in omaggio da Freud, che si conserva tra i resti della sua biblioteca, all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Quel che è certo, è che, due mesi più tardi, uscì sul
Popolo d’Italia un articolo dello stesso Mussolini, nel quale si definiva la psicoanalisi un’impostura. Quindi, quella dedica all’«eroe della civiltà» non fece colpo sul destinatario. Le parole usate da Freud vanno di fatto oltre la mera espressione di cortesia formale e sono state variamente interpretate, dai molti studiosi e biografi che ne hanno scandagliato la vita e l’opera. C’è chi ha colto in quella manifestazione di deferenza la prova di una presunta ammirazione del fondatore della moderna teoria dell’inconscio, nei confronti del dittatore, mentre altri hanno tentato di minimizzare la portata della dichiarazione, vedendovi null’altro che il riconoscimento delle benemerenze del Duce nel campo dell’archeologia, sfera che stava particolarmente a cuore al medico neurologo austriaco.Ora interviene nella disputa lo storico Roberto Zapperi, che in un agile libro di Franco Angeli (
Freud e Mussolini, 144 pagine, 18 euro), in libreria nei prossimi giorni, sembra propendere per una via di mezzo, tra le posizioni dei colpevolisti e degli innocentisti. Zapperi, in sostanza, pur negando che Freud nutrisse qualche forma di simpatia nei confronti di Mussolini e del suo regime, ritiene fondata la tesi di coloro che hanno voluto ricollegare la dedica entusiastica del padre della psicanalisi alla sua speranza che il Duce potesse impedire l’
Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria al Reich tedesco. Una prospettiva, questa, che Freud aborriva, anche per una ragione squisitamente personale: era ebreo. Il padre della psicoanalisi non era il solo ad appellarsi alle virtù politiche del condottiero dell’Italia: anche la leadership austriaca, in primis il cancelliere Engelbert Dollfuss, destinato a perire per mano di agenti nazisti nell’estate del ’34, riponeva i propri voti augurali nell’intervento del dittatore di Roma. Dollfuss capì che l’antidoto alla brutale nazificazione dell’Austria consisteva nella fascistizzazione del Paese transalpino. Ma si trattò di un’illusione di breve durata. Se Mussolini, ancora nell’estate del ’34, inviò due divisioni dell’esercito al Brennero per dissuadere Hitler dal compiere l’
Anschluss, appena due anni più tardi cominciò a cedere alle pretese del Führer avviando la politica dell’Asse. E, nel marzo del ’38, l’annessione divenne un fatto compiuto. È comunque nelle pieghe del pensiero intimo di Freud, specie nei suoi carteggi familiari, che l’autore rintraccia gli elementi che consentono di collocare l’inventore della psicanalisi nello spazio politico del suo tempo. Esercizio non facile, perché l’uomo di scienza non amava manifestare le sue idee politiche, che erano quelle di un liberale piuttosto conservatore. Zapperi, nel suo studio, a mio modo di vedere, esagera nel sottolineare l’avversione di Freud verso i fascismi in generale, e in particolare verso la figura di Mussolini. In realtà, noi non possediamo elementi in grado di stabilire, senza ombra di dubbio, che il celebre neurologo fosse apertamente antifascista. Semmai, la sua duttilità pragmatica lo conduceva, quali che fossero le sue intime convinzioni, a considerare il Duce e il suo modello politico, come un male minore, di fronte alla minaccia nazista. Anzi, Freud faceva speciale affidamento sul cattolicesimo nazionale austriaco, considerandolo un argine naturale contro la marea nazista. È quindi sulla base di un calcolo strettamente realistico, che il papà della psicoanalisi espresse giudizi estremamente benevoli, nei confronti del regime filofascista di Dollfuss, ritenendolo l’unica alternativa agli opposti estremismi che avrebbero condotto l’Austria a perdere la propria indipendenza: da una parte, il bolscevismo, dall’altra il nazionalsocialismo.Ma Zapperi va oltre tutto ciò e ci offre un vero scoop. Occupandosi, invece, dell’atteggiamento che il regime fascista riservò alla psicoanalisi e al fondatore della teoria dell’inconscio, l’autore ha scoperto che, nel 1930, la questura di Roma emise contro Freud un provvedimento di fermo, che sarebbe scattato nel caso in cui lo scienziato della psiche avesse messo nuovamente piede in Italia, dove mancava dal ’23. Non c’è dubbio che il fascismo non approvasse la psicoanalisi, che considerava un prodotto dell’ebraismo internazionale. Ma, anche qui, occorre evitare conclusioni improprie. Diversamente da quanto accadde in Germania, dove i seguaci di Freud vennero perseguitati, e le loro istituzioni smantellate, in Italia l’opposizione fu alquanto più sfumata. Altrimenti, non si spiegherebbe la ragione per la quale Giovanni Gentile consentisse allo psicoanalista di religione israelita Emilio Servadio, di redigere alcune voci dell’Enciclopedia Treccani, come quella su Freud. Non solo: Servadio, che fu membro della redazione dell’Enciclopedia fin dal 1928, fu protetto da Gentile almeno fino al varo delle leggi razziali. Quanto a Freud, dovette, suo malgrado, abbandonare l’Austria, dopo l’
Anschluss, per stabilirsi in Inghilterra. Morì a Londra, nel settembre del ’39, pochi giorni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.