Agorà

Classici. Un Milione di motivi per rileggere Marco Polo

Alessandro Zaccuri sabato 3 febbraio 2024

Ritratto di Marco Polo

Che cosa succede quando un narratore finisce in prigione lo dimostrano le vicende di Cervantes, Dostoevskij, Dickens, Genet, Solženicyn e tanti altri autori per i quali la reclusione ha costituito un’esperienza discriminante. A fianco delle carcerazioni giudiziarie (memorabile il caso di Goliarda Sapienza) ci sono quelle metaforiche, che possono portare a esiti non meno persuasivi, come dimostrano i casi dell’impiegato Kafka e del redattore Buzzati. Sì, ma che cosa accade quando nella stessa cella si incontrano due narratori? In posizioni differenti, oltretutto, per cui uno fornisce la materia del racconto e l’altro provvede a mettere per iscritto. Qualcosa dell’oralità andrà perduto, c’è da scommetterci, e qualcosa nel libro verrà aggiunto, anche questo è prevedibile. Imponderabile rimane il bilancio di entrate e uscite tra vero e verosimile, ammesso e non concesso che la versione trasmessa a voce sia da considerare del tutto attendibile.

Il Milione di Marco Polo viene alla luce così, nella prigione genovese in cui il mercante veneziano richiama alla memoria i suoi viaggi a beneficio di uno scrittore toscano non particolarmente dotato, Rustichello da Pisa, che per le sue opere di argomento cavalleresco si serve di una delle tante varianti del volgare dell’epoca, il franco-veneto. La cronologia è importante, perché siamo negli ultimi anni del Duecento e il salto evolutivo impresso dalla Commedia dantesca è ormai imminente. Di quel fermento linguistico, di quella caccia alla pantera profumata (l’italiano nobile, letterario) di cui Dante darà conto nel De vulgari eloquentia non sono consapevoli né Marco, che per i suoi traffici si è sempre servito di una qualche patois commerciale, né Rustichello che, come tutti gli autori mediocri, si sarà persuaso di disporre del più forbito, del più efficace tra i dispositivi linguistici. Come da questa combinazione sia potuto scaturire un capolavoro è uno di quei misteri ai quali solo la letteratura riesce a dare evidenza. La quasi perfetta contemporaneità fra la biografia di Dante (1265-1321) e quella di Marco Polo (nato a Venezia nel 1254 e morto nella stessa città il 9 gennaio 1324) viene sottolineata dalla sinologa Renata Pisu nella postfazione alla nuova traduzione del Milione in lingua corrente, allestita da Giordano Tedoldi per Marsilio (pagine 350, euro 22). E qui la questione si complica, perché i narratori diventano addirittura tre: Marco, Rustichello e Tedoldi stesso, romanziere di talento che, per il medesimo editore, ha già portato in italiano la prosa sopraffina del Viaggio in Congo di André Gide. Non è la prima volta che uno scrittore italiano si presta a reinterpretare la meravigliosa cantafavola del Milione. Il riferimento non è tanto alle Città invisibili di Italo Calvino, che del libro è la riscrittura postmoderna, ma all’esperimento compiuto nel 1982 da Maria Bellonci, scrittrice molto a suo agio nelle ambientazioni d’epoca (più rinascimentali che medievali, in effetti).

Ancora una volta, la coincidenza di date va tenuta d’occhio, perché il 1982 è anche l’anno del Marco Polo televisivo diretto da Giuliano Montaldo e Il Milione reintrepretato da Bellonci esce inizialmente da Eri, la casa editrice della Rai, a testimonianza di una strategia ben più che mediatica. Era il periodo in cui una parte della politica italiana guardava a Pechino, con un’intuizione non priva di lungimiranza e conseguentemente connotata dal difetto che di solito si ascrive alla lungimiranza, e cioè la mancanza di tempestività. Dieci anni più tardi, sarebbe stata un’idea di successo. Allora era un azzardo del quale il kolossal di Montaldo – non più uno sceneggiato, non ancora una miniserie – era l’emblema. Sembra che la stiamo prendendo larga, ma con Il Milione (“Emilione” era il soprannome dei Polo, il titolo scelto da Rustichello era Le divisament dou monde, che Tedoldi traduce come La descrizione dettagliata del mondo) non si può fagere re altrimenti, e per diversi motivi. Dell’opera manca il manoscritto originale, ma fa ancora testo a storica edizione critica approntata nel 1928 da Luigi Foscolo Benedetto e basata principalmente, ma non esclusivamente sul codice fr. 1116 della Bibliothèque Nationale de France, che per la sua versione Tedoldi decide di seguire in maniera puntuale. L’incipit è quello che conosciamo, con la richiesta di benevolenza rivolta a «sovrani, imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi», ovvero tutti coloro che vogliono «conoscere le diverse stirpi umane e le differenze delle svariate regioni del mondo». La raccomandazione di Rustichello (perché qui è Rustichello che parla, non ci sono dubbi) conserva un tocco di spavalderia: «prendete questo libro – afferma – e fatevelo leg- ».

Si ritorna al bisticcio primordiale, dal quale discende il fascino e l’indecifrabilità del Milione. Un libro del quale non solo non si sa con esattezza chi sia l’autore, ma neppure chi sia il lettore, considerato che i destinatari (i sovrani, gli imperatori e quel che segue) non sembrano disposti ad accollarsi l’onere della fruizione diretta. Meglio che qualcuno legga per loro, come qualcuno deve aver raccontato a Marco quello che Marco riferisce di aver visto con i propri occhi. Su questo, almeno, gli studiosi hanno ormai raggiunto un accordo: seguendo la prassi tipica dei mercanti di ogni tempo e nazione, il veneziano ha raccolto informazioni dove e quando e come ha potuto, rielaborandole in un racconto unitario che tradisce (anche su questo non c’è discussione) un innato talento di affabulatore. A tradire l’origine pratica delle informazioni fornite è lo schema ricorrente per cui, muovendosi di nazione in nazione, Marco Polo elenca scrupolosamente e in via preliminare i dati essenziali relativi alla religione praticata da ogni singolo popolo, alla moneta in uso e, più che altro, all’eventuale sudditanza di Qubilai Qa’an, il potente imperatore di stirpe mongola che del Milione – come aveva compreso Calvino – è il protagonista occulto.

La cronistoria dei viaggi verso la Cina intrapresi da Marco con il padre Niccolò e lo zio Matteo si esaurisce in venti capitoletti scarsi e da lì in poi è tutto un susseguirsi di descrizioni geo-antropologiche e di divagazioni storiche, che il buon Rustichello riconduce agli stilemi delle gesta d’armi. La guerra tra il fondatore della dinastia, Cinggis Qa’an, e un re cristiano identificato nel leggendario Prete Gianni, la setta degli hashishin capeggiata dall’imperscrutabile Vecchio della montagna, la lotta dello spodestato Arghun per riconquistare il trono sono alcuni esempi di un’ambiziosa tessitura epica che già inizia a sfrangiarsi in episodi novellistici. Non per niente, la traduzione di Tedoldi si presenta priva di note, come se davvero quello che stiamo sfogliando fosse un romanzo. L’unico intervento esplicativo consiste nell’impiego dei toponimi moderni, che rendono immediata la localizzazione del singolo resoconto. Per il resto, la struttura della frase e del libro nel suo insieme ricalca fedelmente il dettato del codice parigino, compresa la brusca interruzione dopo l’ultima battaglia tribale. Niente explicit, insomma, niente ricapitolazione del viaggio, amen e Deo gratias. E nessun accenno finale a Venezia, la città che – come osserva Giovanni Montanaro nelle ultime pagine dell’edizione Marsilio – «oggi era la più lenta per antonomasia» e che allora, al tempo di Marco Polo, «era invece la più veloce».