Letteratura. Quel filo rosso che unisce Jung a Dante
Dante ritratto da Botticelli
Quanta importanza hanno Dante e la sua Commedia per Jung? E cosa accade se rileggiamo il Liber Novus o Libro Rosso junghiano alla luce del Poeta e, viceversa, riattraversiamo la Commedia, dopo esserci immersi nel misterioso e visionario libro junghiano? Attraverso queste domande e molte altre suggestioni ci conduce il libro di Tommaso Priviero, Jung, Dante, and the Making of the Red Book: Of Fire and Form, (Routledge, pagine 216, euro 169,00), presto anche in edizione italiana.
Nella prefazione, Sonu Shamdasani, il celebre studioso junghiano nonché curatore del Liber Novus (2009) e dei Libri Neri (2020), sottolinea come, dal punto di vista storiografico, il libro sia il primo studio dettagliato del rapporto tra Jung e Dante, capace di focalizzare l’importanza del Poeta come “guida” per Jung almeno sotto una triplice forma: a) a livello esistenziale e letterario nell’esperienza-esperimento che dai Libri Neri porta al Liber Novus; b) nei collegamenti di Jung con la tradizione della lettura esoterica di Dante, qui rappresentata da Luigi Valli; c) nella costruzione junghiana di una tradizione visionaria, che spazia dalla Commedia, passando per Swedenborg, Blake, il Faust di Goethe e lo Zarathustra di Nietzsche fino, di fatto, allo stesso Liber Novus.
Sul piano simbolico il testo mette in scena un incontro tra immagini e figure della Commedia e del Liber Novus, tracciandone corrispondenze e divergenze. In sintesi, come scrive l’autore stesso, il «libro si sviluppa lungo due binari principali: dimostrare l’importanza esercitata da Dante, in primis la Commedia, sulle visioni di Jung nei Libri Neri e soprattutto sul Liber Novus e sullo sviluppo delle sue idee psicologiche; illustrare il modo in cui l’incontro Jung-Dante offra un’eccellente opportunità per esaminare i principi ermeneutici che accompagnano l’ipotesi di Jung di un genere visionario occidentale». Attraversare i due libri cercando riscontri testuali oltre che di immagini, ci porta a scoprire che il Libro Rosso è una sorta di «Commedia di Jung», così come, paradossalmente (e borgesianamente), l’immenso poema è anche un Libro Rosso di Dante.
Il testo di Priviero è denso, stratificato, intreccia e mette a dialogo euristicamente letteratura, poesia, teologia e psicologia, e offre molti spunti ermeneutici in alcun modo qui riassumibili. Senza dubbio però centrale in tutto il libro risulta l’assunto che l’opera dantesca come quella junghiana vadano lette in un’ottica trasformativa, esperienziale, perché esse stesse, simili e certo diverse, nascono da esperienze di immaginazione creatrice, sono viaggi, visioni, récits, direbbe Henry Corbin, nel mundus imaginalis, che non è fantasima o spettralità virtuale, ma una realtà più sottile che ci intride e ci contiene. I rimandi intertestuali tra l’opera moderna e quella medievale non fanno che rafforzare tale ipotesi di lavoro ermeneutica.
Tutto questo non deborda per nulla in una lettura irrazionalistica o priva di rigore. Al contrario, con acribia storico-critica, ma appoggiandosi anche alle auctoritates di Corbin appunto, di Eliot, di Irma Brandeis (grande dantista e studiosa di mistica oltre che Clizia montaliana), di Christian Moevs e tanti altri ancora, Priviero ci ricorda che fondamentale per la Commedia (ma anche per il Liber Novus) «è il cambio di vita, l’esperienza e la dissoluzione dell’ego». Il fine è pratico.
Insomma sia Dante che Jung «trasmettono la storia di un radicale processo di autotrasformazione che si basa essenzialmente, anche se in modi diversi, sul rinnovamento del sé interiore attraverso la visione dell’amore: il compito di diventare divino» che Dante vive cristicamente e che l’autore del Liber Novus esperisce come rinascita di Dio nell’anima. Ma ancora: proprio nel periodo della traumatica rottura con Freud, a partire dal 1913, Jung scende nella «selva oscura» di se stesso e della sua anima, come di un’epoca che si appresta a sprofondare nell’inferno della Prima guerra mondiale.
Sono appunto gli anni dei Libri Neri e della prima stesura del Liber Novus (1914), che si protrarrà fino al 1930 almeno, ma di fatto restando centrale e presente nella vita di Jung fino all’ultimo. Ebbene qui l’importanza di Dante, già per altro citato dal grande svizzero nel 1898, si fa centrale. Dante è il “Virgilio” di questa nuova discesa, colui che già ha fatto un’esperienza simile e diversa, e che ne è tornato salvo, rinato e reintegrato. Dante è riuscito laddove il Nietzsche dello Zarathustra, altro libro capitale del percorso intellettuale e interiore di Jung, farà naufragio.
Se il viaggio junghiano è più infernal-purgatoriale e meno paradisiaco di quello dantesco, pure molti e notevoli sono i punti di contatto, quali ad esempio il motivo della metanoia o la crisi del «mezzo del cammin», la struttura e la direzionalità dell’Inferno, i morti, la centralità di una nuova esperienza del Cristo, Ulisse, i simboli della selva, del deserto, delle acque pericolose, le guide che siano Virgilio, Elia o Filemone, nonché la crucialità dell’anima innamorata, che sia donna reale o interiore, che si chiami Beatrice, Salomè, Toni Wolf.
Tutto al servizio di una rigenerazione profonda e amante, di una crescente riconciliazione degli opposti, che sappia reintegrare alto e basso, istinto e natura, animalità e uomo inferiore, immaginazione creatrice, logos e amore. «Abbiamo ucciso i morti e adesso ci aggiriamo in una vita che è poco più di un pregiudizio, lontani dalla pienezza dell’esistenza», ci ricorda Jung. E i due geniali libri visionari invece fanno anima e memoria, attraversano abissi, ne risalgono e in questi tempi oscuri ci chiamano al grande risveglio, alla grande vita.