Lirica. A Parma il filo “nero” del Festival Verdi
Un momento del “Ballo in Maschera” che ha aperto il Festival Verdi di Parma
C’è un filo rosso - che poi, a ben guardare, è nero. La morte. Corre, si insinua, emerge prepotente tra i titoli dell’edizione 2021 del Festival Verdi. A Parma inizia tuto con un funerale. Al quale siamo invitati a partecipare. Perché entrando al Teatro Regio il sipario è sollevato. Un velo nero divide palco e platea. Nero, ma che attraversato da una luce acida ti lascia vedere oltre. Dietro, figure dai contorni sfumati attendono l’inizio della veglia funebre. Tutti guardano un monumento di marmo nero con un angelo nell’atto di spiccare il volo. L’idea di aprire Un ballo in maschera con il funerale di re Gustavo III, era di Graham Vick. Era, perché Vick è morto due mesi fa, a luglio per il Covid. E dunque l’effetto di quell’angelo, di quel funerale è di quelli da pugno nello stomaco. Tragicamente profetico, diresti pensando che Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi è l’ultimo spettacolo del regista, realizzato da Jacopo Spirei, a lungo assistente di Vick, che ha raccolto il testimone e portato a compimento l’allestimento.
Un regista, un uomo prima di tutto, Vick, capace con i suoi lavori (anche con i meno riusciti) di scardinare certezze e di suscitare riflessioni, spesso scomode. Come in questo Ballo in maschera. Opera che «parla di limiti, di varcare i confini per spingersi oltre» come spiega Spirei. Il limite dell’umano. I confini della vita e della morte. Gustavo III li varca. Gustavo III perché sul leggio di Roberto Abbado (che guida la Filarmonica Arturo Toscanini e l’ottimo Coro del Regio preparato da Martino Faggiani) c’è l’edizione critica della partitura di Ilaria Narici mentre il libretto è quello del debutto a Roma nel 1859 del Ballo, quando l’opera si intitolava ancora Gustavo III, era ambientata a Stoccolma e metteva in scena il regicidio, avvenuto in Svezia nel 1792 per mano di Jacob Ankarstrom, di Gustavo III, ucciso perché rompeva le regole – abolì la tortura, fece riforme sociali, sostenne la cultura.
Spirei lo mette in scena così. Libero. In uno spettacolo dove «si parla di mascheramenti, di travestimenti, di come niente sia come appare». Mascheramenti, travestimenti che ci sono in scena. Dove la corte di Gustavo III è fatta di uomini in frac, ingabbiati in alto, in una balconata che sovrasta la scena di Richard Hudson. Un grande spazio semicircolare, ideale prolungamen- to stilizzato della sala (siamo tuti dentro il funerale) e popolato da un’umanità ai margini impersonata da attori che contrappuntano l’azione con una continua danza in una drammaturgia che procede per suggestioni, per visioni. Anche forti (e qualcuno non ha gradito).
Roberto Abbado imprime alla partitura un ritmo teatrale sempre attento al racconto. Lo stesso che si sente (e si vede) sul palco, dove Piero Pretti con la sua voce (bellissima, a suo agio in ogni passaggio) disegna un Gustavo III misuratissimo. Combattiva, non rassegnata l’Amelia di Anna Pirozzi capace di piegare la sua voce (un fiume in piena) ad un canto sfumato e dolente. Anckastrom è un sempre più maturo Amartuvshin Enkhbat. Giuliana Gianfaldoni con acuti brillanti disegna un Oscar di carattere. Anna Maria Chiuri, con la sua voce tagliente e penetrante, stende un’ombra ancora più sinistra e inquietante su Ulrica. Tutti presenti al funerale di Gustavo. Che apre e chiude, in un cerchio perfetto, lo spettacolo, che diventa così un lungo flash back. Un corsa verso la morte. Che, comunque, non è l’ultima parola. Perché c’è la visione potente di quell’angelo, pronto a spiccare il volo.
Non è nemmeno l’ultima parola della Messa da Requiem la morte. E nemmeno la prima. Ce ne sono altre. Quasi non le senti. Dette così, con un filo di voce. Restano quasi in gola. «Requiem aeternam dona eis Domine». Una preghiera. «Et lux perpetua luceat eis». Che si veste di infinito. Parole che sembrano non voler uscire dalla bocca, per non dover far deflagrare il dolore della perdita. Per ascoltare (per sentire) la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi diretta da Daniele Gatti a Parma devi fare silenzio. Dentro di te, prima di tutto. Quel silenzio che, all’inizio del viaggio negli abissi dell’uomo che è la Messa da Requiem di Verdi secondo Daniele Gatti, si riempie degli accordi dei violoncelli. Il Requiem risuona al Festival Verdi, cuore dell’edizione 2021, incastonato tra Un ballo in maschera e Simon Boccanegra, una lunga marcia funebre verso la morte del protagonista, l’opera della solitudine secondo Michele Mariotti che la dirigerà sabato.
Umano, umanissimo il Requiem di Verdi nella lettura di Gatti che dirige tutto a memoria, sguardo in alto, gesto ascetico. Le parole della liturgia funebre si spogliano di un certo misticismo, per diventare eco di un dolore, per farsi preghiera che nasce dalla vita. Per nulla consolatoria. Una preghiera di chi, a denti stretti, chiede ragione del dolore a Dio. A darle voce un’eccellente Orchestra sinfonica nazionale della Rai, il Coro del Teatro Regio (collocato in alto, nella balconata che si apre nella scenografia del Ballo, qui ideale camera acustica) insieme a Maria Agresta, Elina Garanca, Antonio Poli e John Relyea. Voci tra le voci, tessere di un mosaico che solo guardate da lontano ti rivelano il disegno. Ed è così la lettura che Gatti offre, fatta di tante tessere, di tanti momenti belli, bellissimi in sé. Ancora più belli se messi uno accanto all’altro, perché rivelatori del disegno complessivo.
L’austerità ieratica del Liber Scriptus, che risuona quasi come una visione profetica di Geremia o Ezechiele, la vertigine del gorgoglio (quasi infernale, come in un girone dantesco) dal quale emerge l’impasto di dolore e pietà del Rex Tremendae, la trasparenza cristallina dell’Hostias, offerta che sale al cielo come quella di Abele nella Genesi. Visioni dell’Antico Testamento. Poi il Nuovo Testamento irrompe con le visioni dell’Apocalisse, con il Dies Irae, l’Agnus Dei, il Sanctus, il canto di coloro che «hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello». Le parole della Rivelazione. Alle quali l’uomo risponde. Anche a muso duro, come Giobbe, nel Libera me Domine finale, dove il soprano non mette un punto di domanda al suo «Libera me, Domine, de morte aeterna », piuttosto un punto esclamativo, quasi a dire «me lo devi». Poi c’è il silenzio. Lo stesso dell’inizio. Cha hai fatto dentro (e fuori) di te. E che, te ne accorgi adesso, si è riempito di vita. Trasfigurata, oltre al morte, dalla musica.