A più di 160 anni di distanza sono ancora visibili i segni delle granate, dei colpi delle palle di cannone e di moschetto (molti dei quali rinvenuti dopo i recenti restauri tra gli anni ’90 e il 2000) attorno alla cupola della chiesa, a due passi dal ghetto, di San Biagio e Carlo ai Catinari a Roma, lanciati dai garibaldini e dai francesi di Luigi Napoleone, durante la Repubblica romana del 1849. E ancora oggi attorno a questo luogo di culto, non distante dal Gianicolo, e al palazzo adiacente dei padri barnabiti a parlare di sé e ad essere rievocato, assieme alla storia religiosa, è soprattutto il Risorgimento: qui bivaccarono e coabitarono, lungo i corridoi del primo piano, divisi solo da un tramezzo di legno i seguaci di Garibaldi (circa seicento soldati) e i barnabiti (diciotto religiosi) dall’aprile al giugno del 1849. Un luogo dove la storia religiosa dei figli di sant’Antonio Zaccaria si intrecciò con le gesta dei garibaldini e scelto, ironia del caso, anni dopo – era il 1990 – come set cinematografico per alcune scene del film di Luigi Magni In nome del popolo sovrano. Un sottile ma significativo filo rosso, quasi sotterraneo, lega, di riflesso, i chierici regolari di San Paolo alle vicende del Risorgimento: barnabiti, fedeli cappellani e seguaci di Giuseppe Garibaldi furono Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi come barnabita fu il padre Alessandro Piantoni, rettore del collegio Longone che guidò i suoi allievi – confessati e comunicati – sulle barricate delle Cinque giornate di Milano, nel lontano 1848, contro gli austriaci. Ancora oggi a confermare questa forzata coabitazione nella Città eterna, per quel breve periodo, tra i barnabiti e i patrioti della Repubblica romana sono i diari e le testimonianze dell’allora superiore di San Carlo ai Catinari, il piemontese Carlo Giuseppe Vercellone. Una documentazione che ha permesso di far affiorare qualcosa di inaspettato: il seppellimento di molti garibaldini nella cripta della chiesa. «Per motivi pratici ma anche logistici – racconta il barnabita padre Filippo Lovison, docente di Storia della Chiesa alla Pontifi- cia università Gregoriana – accanto alle ossa di barnabiti sparse alla rinfusa, per far fronte alle necessità dei garibaldini attorno a questo luogo fu allestito un improvvisato ospedale e sempre qui furono seppelliti i “loro” morti. Venivano calati direttamente dal sovrastante pavimento dopo che i nostri padri vi avevano celebrato le esequie, grazie alla botola aperta davanti alla cappella di Santa Cecilia, detta “del Paradiso”». La cronaca minuziosa di quei mesi, raccolta da padre Vercellone, ha permesso di far emergere le difficoltà di quella coabitazione molto costretta e certamente forzata: dalle imprecazioni dei garibaldini contro la Chiesa di Pio IX e i loro truci propositi «Volemo sangue de’ preti e de’ frati», arrivando a gridare a squarciagola «Viva la Repubblica e morte ai neri» (cioè i gesuiti), ai timori che gli stessi religiosi venissero accoppati e uccisi da quei militari («Avevamo perdonato ben di cuore a chi il giorno dopo ci avrebbe ucciso »); molte di quelle esequie avvenivano nel tempio barnabitico, in fretta e furia, e in contemporanea agli attacchi dall’artiglieria francese del Gianicolo. Ma attorno ai religiosi barnabiti si creò in quei mesi quasi un alone di intoccabilità, un salvacondotto, per il pietoso ufficio, quello di celebrare dei funerali cristiani per i morti garibaldini da parte del governo della Repubblica romana. «Secondo quanto testimonia il padre Francesco Salesio Canobbio – aggiunge il barnabita e profondo conoscitore di quei fatti Mauro Regazzoni – la scelta del governo di inviare nostri sacerdoti piuttosto che altri era da addebitare al fatto che essi erano i più conosciuti per via di Ugo Bassi». Così toccò a questi religiosi divenire i custodi dei pochi oggetti personali e i naturali depositari degli ultimi sospiri e confidenze dei soldati dell’Eroe dei due mondi. E non è un caso che nella cripta della basilica romana trovò – grazie a queste mani pietose – sepoltura buona parte dello Stato maggiore della legione Garibaldi di quel tempo: dal maggiore Alessando Montaldo al generale e pittore francese Gabriel-Joseph-Hippolyte Laviron, da Alessandro Meloni a Francesco Daverio e a Colomba Antonietti, moglie del tenente Pino Porzio; ai padri di San Carlo ai Catinari toccò anche di occuparsi di recuperare anche i corpi del marchese Luciano Manara (a Villa Spada) e dell’uruguaiano di Montevideo Andrea Aguyar (detto “il Moro di Garibaldi”), morti il 30 giugno del 1849. Rivelatore della drammaticità di quelle ore sono ancora le parole del padre Vercellone: «Il generale Garibaldi con alcuni ufficiali è venuto alle 8 pomeridiane per segnare col suo suggello la cassa del cadavere aiutante di campo [Aguyar]; ed essi stessi vollero con le loro mani calarlo dentro la sepoltura della nostra parrocchia (davanti alla cappella di Santa Cecilia)». Una vulgata, che ha quasi il sapore della leggenda, vuole che per un breve periodo nella cripta barnabitica abbia sostato per la sepoltura anche il corpo del padre del nostro inno nazionale: Goffredo Mameli. Con il ritorno sul trono di San Pietro di Pio IX verranno cancellati e rimossi i segni visibili, una vera damnatio memoriae , delle gesta patriottiche della Repubblica romana: nel maggio 1851 l’allora cardinale vicario per la città di Roma, Costantino Patrizi Naro Montoro, imporrà ai barnabiti di rivoltare la lapide sepolcrale dell’eroe garibaldino Francesco Daverio, che nel frattempo era stata coperta da un genuflessorio. Con la conciliazione tra Chiesa e Stato e la chiusura dell’annosa Questione romana nel 1929 il tempio barnabitico tornerà a calcare la scena della storia per i suoi fatti risorgimentali: il 12 novembre 1938 avvenne una ricognizione dei resti dei garibaldini e tra il 5 giugno 1940 (pochi giorni prima della dichiarazione di guerra) e il 28 maggio 1941 vennero riesumati dal sepolcro di San Carlo ai Catinari i corpi dei garibaldini per essere poi trasferiti nel mausoleo dei caduti al Verano e poi definitivamente in quello del Gianicolo. Per gli strani rovesci e pieghe che, a volte, prende la storia, su proposta della legione garibaldina sarà sempre di competenza dei barnabiti di San Carlo ai Catinari – con l’autorizzazione e assenso dell’allora cardinale vicario di Roma, Francesco Marchetti Selvaggiani – sovrintendere, nel settembre del 1942, alla cura spirituale del mausoleo del Gianicolo (l’allora governatore fascista di Roma, Gian Giacomo Borghese, concederà tra l’altro ai padri un simbolico compenso per questo ufficio); toccò così a quei religiosi continuare a tenere viva la memoria e il culto di quei fatti, di cui i loro antichi confratelli, guidati dal caritatevole padre Vercellone, furono più o meno consapevoli attori assieme ai patrioti della Repubblica romana del 1849.