La mostra a Roma. Penelope: fedele sì, ma ricca di sfumature. Come la cugina Elena
Joseph Kuhn-Régnier, “Penelope alla tela”, in “La Vie Parisienne”, 18, 4 maggio 1918 (particolare). Collezione privata
La mostra su Penelope nel Parco archeologico del Colosseo, al Tempio di Romolo nel Foro romano e alle Uccelliere Farnesiane sul Palatino, è articolata in quattro sezioni: “Il telaio e la tela”, “Il gesto e la postura”, “Il mondo del sogno”, “Il velo e il pudore”, con un omaggio a Maria Lai. Il catalogo (Penelope, a cura di Alessandra Sarchi, Claudio Franzoni, Electa, paigne 280, euro 32,00) affronta gli studi su Penelope in modo approfondito ed eccellente, e presenta tutte (o quasi) le sue immagini dall’antichità a oggi. Dopo l’ouverture di Sarchi con la messa in luce di Franzoni sulle immagini di Penelope, Silvia Ferrara ne indaga le radici nei primordi della scrittura omerica e Piero Boitani ne dà un’ampia esegesi; la commentano Maria Rizzarelli nella letteratura contemporanea, Vassilina Avramidi tra teatro e poesia, Anna Masecchia nel cinema e nella tv. È la prima di una serie di iniziative avviate da Electa sull’“Esistere come donna”, che continuerà su Antigone e su Saffo.
Merito di Alessandra Sarchi e di Claudio Franzoni è di avere riportato in scena la figura di Penelope un po’ dimenticata, e forse nei suoi stereotipi nemmeno più di moda, dal momento che fedeltà e tenacia nell’attesa sono sempre stati legati alla soggezione femminile. Straordinaria eccezione il mondo dei cicli bretoni o del fin amor di Provenza, dove fedeltà e attesa sono virtù eminentemente cavalleresche e maschili!
I Greci raffigurarono gli impulsi nella più varia gamma di figure. Ma anche quando le assolutizzarono le loro mescolanze rimasero latenti. Le nascosero perfino nella figura più unitaria e più tipica, come quella di Penelope: in realtà la più cangiante nel profondo. E altrettanto fecero con quella di sua cugina Elena, che contiene più elementi in comune con lei, di quanti potremmo mai immaginare, nonostante ne appaia l’antitesi. Questa è appunto la bellezza e l’inesauribilità del mito.
Il padre Acrisio getta in mare Penelope neonata e la salvano anatre striate di rosso (da cui un etimo del suo nome), ma dopo le nozze le riserva un interesse ambiguo, che la costringe a velarsi per esprimere il pudore della scelta per il marito Odisseo: apparente trasgressione per la “figlia del padre”, che gli preferisce l’amato. Elena, figlia di Zeus ma allevata da Tindaro fratello di Acrisio, sceglie «la cosa più bella», ossia colui che ama, e non è il marito Menelao, sebbene il mito ripreso da Euripide dica che seguì Paride a Troia solo l’immagine di lei, un eídolon fabbricato dagli dèi. Soltanto Saffo considera l’“autodeterminazione” di Elena, in vertiginoso squilibrio con la passività di essere trascinata da Afrodite: e così anticipa l’eros di Platone e dei mistici. Come figlia di Nemesi, Elena è un archetipo della bellezza e della libertà risorgente. Pericolosissima, ma un valore assoluto. Va tenuta fuori dagli stereotipi e dalla dinamica dei personaggi: appartiene alla potenza dei simboli, la cui unità è fatta di opposizioni speculari. Anzi, è una forma: la «forma delle forme», come la chiama Goethe.
La cugina Penelope, proprio nel momento cruciale del pieno riconoscimento con lo sposo amato, sente il bisogno di esprimere la terribile dipendenza di tutti verso gli dèi, potenze che ci dominano, e che avrebbero potuto ingannare lei stessa. La colpa di Elena, che ha causato le loro sciagure, ne è dipesa: perciò Elena è allo stesso tempo colpevole e incolpevole (non innocente, dato che nuoce). Ma l’ambiguità è terribile, perché forse perfino Penelope avrebbe potuto sbagliarsi, se fosse stata nei suoi panni. Elena, di certo meno prudente di lei, non avrebbe però sicuramente seguito Paride, se avesse saputo che gli Achei sarebbero andati a riprenderla. Ecco che qui spunta la mêtis di Penelope. Quello che dovrebbe essere un problema morale, anzi un suo assoluto, sembra divenire quasi un mero problema strategico, e il biasimo pronunciato per l’atto del tradimento sembra riguardare le forze in campo e le conseguenze del loro squilibrio, più che l’atto in sé.
Dice Penelope: «Il mio animo aveva sempre timore / nel petto che qualche mortale venisse a ingannarmi / con chiacchiere: molti tramano, infatti, astuzie malvage. / Neanche Elena Argiva, nata da Zeus, / si sarebbe congiunta con uno straniero in amore e nel letto, / se avesse saputo che i bellicosi figli degli Achei / l’avrebbero portata di nuovo a casa e in patria. / Ma certo la spinse un dio a compiere l’ignobile azione: / non da prima ebbe chiaro nell’animo l’accecamento / funesto, da cui venne il primo dolore anche a noi».
I versi getterebbero luce dubbia sulla psiche di Penelope, come simbolo della fedeltà: la sua e in linea di principio. Ma è pragmatica e spregiudicata nel considerare le conseguenze degli atti e nel sacro timore degli dèi: simile al marito, che supera per finezza e scrupolo nell’interpretazione dei segni. Ho premesso questo discorso perché la sua immagine combacia con l’idealizzazione della donna romana, «buona e valente, e perciò pudica» custode del focolare come la dea Vesta, sempre seduta a filare e a tessere, alla quale si sarebbero mescolate le immagini delle virili matriarche della Bibbia. Penelope è proprio la sorella di Ulisse, perché ne condivide la mente di polipo: complessa, tortuosa, calcolatrice, capace di nascondere e fingere, mentre va dritta allo scopo; come lui bada alla sostanza, dato che è saggia, previdente - una creatura di Atena Mêtis, la quale li protegge entrambi. È davvero l’esempio della somiglianza nel fondo, che dovrebbe legare due esseri umani. È lui, che lei ama.
Il letto di olivo, dalla pianta radicata solidamente nella terra, che Ulisse costruisce con le proprie mani con intorno la stanza coniugale, è il simbolo della fusione cosmica, che di due fa uno. Non importa l’attesa stremante che li divide per anni e anni. I due sono stati uno, e lo saranno per sempre. Il segno del riconoscimento estremo che Penelope pretende dal marito lo riguarda perché noto soltanto a loro due, ed estremo simbolo della loro unione sacra. Non si fida nemmeno dei suoi occhi, nemmeno del suo cuore, che già si era sciolto. Nonostante la rivelazione evidente, anche dopo che Ulisse ha ucciso i Proci e le ancelle infedeli, e Atena lo ha reso giovane come in tempo, la dura, ostinata, irremovibile Penelope dal cuore «di ferro», - “incomprensibile”, la definisce Ulisse, ma l’aggettivo vale anche per lui – si fida solo del letto di olivo che non può essere rimosso: axis mundi della ierogamia.
Più di ogni altra qualità, che il secondo Omero dell’Odissea attribuisce a Penelope, a me piace questa ferrea fedeltà conoscitiva attribuita ai segni. Al suo accoglierli attraverso i sogni, quelli veritieri che giungono dalle trasparenti porte di corno, mandati dagli dei, non quelli che passano dalle opache porte di avorio, ingannevoli scorie diurne. La sua sapienza è quella arcaica e notturna, la sua salute viene dall’abbandono al sonno profondissimo che la prende mentre tutto esplode intorno a lei, ed è come se non dovesse contaminarsi con il delitto che il marito compie sterminando i Proci. Suo è il sonno caro alle Muse, il sonno della profezia - e lei vi giace come il feto nel ventre materno di un’origine, o come il malato che sprofonda nell’incubazione di Asclepio, il guaritore.
Certamente non si possono separare le sue altre capacità: l’astuzia di procrastinare le nozze con uno dei Proci tessendo il sudario di Laerte, che poi disfa nella notte; lo stratagemma finale della richiesta dei doni di nozze quando la trama viene scoperta per il tradimento dell’ancella, e la sobria, pacata, efficace eloquenza nel porgerla; la riservatezza che la fa mantenere nelle stanze superiori della casa mentre i Proci imperversano nel mégaron di sotto; le posture che indicano la mente pensante, meditativa, segreta, o il coprirsi con il velo a metà viso, che non è soltanto un gesto in difesa di aidós, il pudore, ma molto altro; quel tenere la gamba accavallata mentre siede, che nasconde la tensione del corpo raccolto, che si chiude all’esterno. E la contemporaneità del pianto, il suo dolore. Finché esso si scioglie nelle lacrime del ritrovamento: pianto epico di fronte al destino ineluttabile e di purificazione liberatrice: pianto di disperazione e di gioia al massacro che sorpassa le atrocità di Iliade e Odissea, quando Ulisse si trasforma da polipo astuto in leone furioso, e si fa Achille, uccidendo anche l’aruspice perché gli è sfavorevole, mentre salva il poeta, perché la poesia è innocente, e divina.
Con la cugina Elena Penelope condivide la tessitura di storie e di inganni (sempre frutti di mêtis). Non ne è mai al di fuori, è sempre al centro di quanto intesse, e promana da lei. Non pare dimostrarlo, ma è molteplice e ambivalente, come rivelano le azioni del fare e disfare. Quanto alla centralità di Elena, è una sciocchezza dire che Elena rappresenta solo le gesta altrui, quelle degli eroi. Li ha mossi lei! Lei è la tessitrice, come Penelope che tesse per il ritorno, tramando di fare e disfare il destino.