Agorà

Novecento. Quando Aldo Moro voleva portare le Br in Parlamento

Angelo Picariello martedì 22 marzo 2022

Aldo Moro

«Ma sai cosa si è messo in testa il Capo? Portare le Brigate rosse in Parlamento ». Era il 1974, non c’era stata ancora la deriva più sanguinaria di quel movimento eversivo, e Moro, da educatore, e uomo del dialogo, intravedeva una strada ancora possibile per evitare il peggio. Lo confidava il maresciallo Oreste Leonardi, il suo capo-scorta, l’uomo che ne raccoglieva, spesso, le riflessioni più intime, parlando con Giorgio Balzoni che aveva da poco superato l’esame di diritto e procedura penale alla Sapienza, ma non aveva smesso di frequentare quel professore che, ai vertici della politica italiana, trovava modo di dedicare tanto tempo ai suoi allievi, al punto - ricorda lo stesso Balzoni - di arrivare più di una volta in ritardo a riunioni istituzionali a Palazzo Chigi, come gli raccontò lo stesso Leonardi. Anche quel giorno lo trovò impegnato a discutere con alcuni di loro, nel corridoio, dopo la lezione e allora Balzoni ripiegò a colloquiare col capo-scorta che, incrociando ironia e scetticismo nel giovane interlocutore, consapevole dell’enormità della sua affermazione, lo spinse a non banalizzare: «C’è poco da ridere. Lo sai che lui vede il futuro con anni d’anticipo». L’autore a lungo giornalista Rai ed ex vicedirettore del Tg1, che con Aldo Moro il professore (libro che ha ispirato l’omonimo docufilm di Raiuno, con Sergio Castellitto) aveva acceso un faro su un aspetto meno istituzionale e poco conosciuto dello statista, ora prosegue su quel filone e con Aldo Moro e le Brigate Rosse in Parlamento (Lastoria edizioni, pagine 66, euro 12) prende in considerazione l’ipotesi che Moro nell’interrogarsi sulla prostesta giovanile, favorendo il dialogo con gli studenti, si fosse spinto fino a cercarlo anche con gli eversori che avrebbero poi decretato la sua mor- te. Balzoni ammette di non avere trovato la «pistola fumante» di una prova, ma mette in fila una serie di indizi. Ed è indicativo che abbia firmato questo lavoro con Fiammetta Rossi, che altri non è se non la consorte, anche lei allieva di Moro. Un altro studente dei corsi dello statista, Nicodemo Oliverio - che poi diventerà funzionario della Dc, e a lungo parlamentare del Pd - ricorda un episodio, avvenuto proprio l’anno del rapimento: «Due studenti che sedevano sempre insieme, una volta che si era saputo del loro esser fidanzati, per pudore smisero di seguire le lezioni vicini. Moro se ne accorse e li chiamò entrambi alla cattedra, dopo la lezione, e capirono così che non c’era nulla da tenere nascosto al professore, anzi». Così Balzoni ricorda che Moro aveva intuito che stava nascendo qualcosa di serio fra lui e Fiammetta e volle mettere le cose in chiaro, a modo suo: «Al vostro matrimonio voglio essere il testimone. Sono un uomo del Sud e a queste cose ci tengo». E infatti così andò, veramente. L’aver posto, da costituente, la persona al centro della Carta Costituzionale e in particolare della giurisdizione penale, non rappresentava per lui l’adesione solo a una corrente di pensiero, quanto l’espressione più profonda del suo sentire. Gli indizi che Balzoni mette in fila, per rendere credibile che Moro cercasse il dialogo anche con gli «uomini delle Brigate rosse» (l’espressione usata da Paolo VI nel tragico appello per la sua liberazione) sono tanti. A partire dalla convocazione a Palazzo Chigi, dopo gli scontri di Valle Giulia nel Sessantotto, dei leader del movimento studentesco, per provare a capire le ragioni della protesta che già si stava fecendo violenta. Così, quando in università i leader del movimento lo sfidarono, interrompendo la lezione e lo invitarono a venire in assemblea, lui non si tirò indietro, e il confronto, in cui mostrò di condividere molte ragioni della protesta, si chiuse con un inaspettato applauso. D’altro canto, in politica, fu protagonista della composizione di diversi conflitti, dagli scontri in Alto Adige (risolti con l’intesa del 1969 con l’Austria siglata a Copenaghen da Moro ministro degli Esteri) alla contesa con l’ex Jugoslavia, chiusa col trattato di Osimo del 1975 ancora oggi al centro di forti polemiche con l’accusa di cedimento e che tuttavia Moro, da presidente del Consiglio, considerò conveniente per chiudere definitivamente un trentennio di rivalità e aprire una stagione nuova. Tutto autorizza a ritenere possibile, quindi, che un accordo lo avesse pensato, e forse cercato, anche con le Br. Pierluigi Castagnetti ricorda quello che, sfuggito a resoconti ufficiali, fu il suo vero ultimo discorso, a Bologna, dedicato a parlare per due ore di fila della celebre foto del giovane in piazza col passamontagna e la pistola puntata, divenuta simbolo degli anni di piombo: «Quando un giovane impugna la P38 - disse - vuol dire che non ha più fiducia nella possibilità di cambiare le cose con la democrazia». Sosteneva quindi che «noi che ci occupiamo di politica dobbiamo fare i conti con il partito armato», ha riferito la moglie Eleonora. E si poneva il problema di «quelli che avevano 'plagiato' quei giovani», convinto come era che parlare con loro potesse aprire uno spiraglio per un cambio di atteggiamento, fino a «parlamentarizzare » il loro impegno. In questa chiave lo spirito delle lettere, tanto contestato, emerge come veritiero sia nel far prevalere la persona su ogni ragione di Stato, sia nella spinta ad accettare il dialogo con i carcerieri, che - avendolo potuto - avrebbe probabilmente avviato lui, già molto prima. Non andò così, ma le vicende recenti della riconciliazione con le vittime, la stima che oggi gli esprimono tanti dei suoi 'carnefici' confermano come quell’idea non fosse così strampalata. Ma i tempi purtroppo non erano maturi.