Il caso. Quando il film non arriva al cinema
Il buono, il brutto e il cattivo del nostro cinema. Mancano poche ore alla Mostra d’arte cinematografica e c’è molta attesa per i numerosi autori italiani, giovani e meno giovani, che presenteranno i loro film. Soprattutto dopo un anno significativo come quello trascorso dove il cinema italiano ha dimostrato di essere all’altezza del panorama internazionale. Un anno determinante per autori giovani e meno giovani che cercano, da decenni, di realizzare film preziosi capaci di scuotere l’immaginario collettivo. Solo a citarli si capisce il peso etico e culturale e l’influenza che avranno nei cineasti del futuro. Il Leone d’oro del Festival di Venezia a Sacro GRA di Gianfranco Rosi, il Marc’Aurelio d’oro del Festival internazionale di Roma a Tir di Alberto Fasulo, fino all’indimenticabile pioggia di premi come l’Oscar e i Golden Globe a Paolo Sorrentino per La grande bellezza e il Gran Prix (secondo premio del Festival di Cannes per importanza) vinto da Alice Rohrwacher con Le meraviglie, sua seconda opera. Film che hanno diviso, scosso, interessato, ma che non sempre riescono ad avere una "vita" facile oltre il Festival. La grande bellezza è senza dubbio un film non da incasellare facilmente come miracolo dell’industria cinematografica, ma che ha qualcosa, pur nei suoi limiti barocchi, di unicum. Il mancato premio a Cannes non ha chiuso le porte internazionali a Sorrentino, che, con la sua incetta di premi anche in Italia, con i suoi quasi otto milioni di euro in sala e i nove milioni di telespettatori, è riuscito a costruire, dopo cinque film, un solido rapporto tra la sua poetica e il pubblico. E che forse arriverà anche per Alice Rohrwacher che con il suo piccolo e grande film Le meraviglie ha sfiorato nelle sale il milione di euro di incasso. È vero, il giudizio sul cinema d’autore non può essere soppesato secondo il "botteghino" italiano, ma soprattutto nel tempo e nella sua dimensione internazionale. Certo i Festival, per la loro vocazione autoriale, sono per natura il luogo ideale dove nascono, vivono quegli autori che non hanno come obiettivo quello di "piacere" al grande pubblico, ma hanno l’urgenza estetica e non sempre morale di non anestetizzare il mondo. Urgenza che invece non è spesso accolta dalla produzione italiana e dai finanziatori pubblici o privati.
Dietro false ragioni di sopravvivenza nell’industria cinematografica il cinema italiano spesso si lancia nel riciclaggio ripetuto di schemi, situazioni e linguaggio da rubrica di cronaca rosa. Lo dimostrano tre titoli su tutti distribuiti in primavera a distanza di pochi giorni tra loro: quasi due milioni di euro per Un matrimonio da favola di Carlo Vanzina (uscito al cinema il 10 aprile) e Un fidanzato per mia moglie di Davide Marengo (30 aprile) mentre 50cinquecentomila euro per Ti sposo, ma non troppo di Gabriele Pignotta (in sala il 17 aprile). Film, che vivono e muoiono nello stesso spazio di un trailer, riescono a occupare, senza riempirle di spettatori, le sale (soprattutto le multisale). Anche se per essere onesti non bisogna dimenticare la riuscita produzione di due titoli di due esordienti: il già famoso Pif con La mafia uccide solo d’estate (con i suoi cinque milioni di euro di incasso oggi secondo i dati Cinetel) e Sydney Sibilia con Smetto quando voglio (con i suoi quattro milioni di euro ). Due "commedie" capaci di radicarsi nel tessuto sociale e di individuare i bisogni ultimi di una narrazione cinematografica non serializzata.
E forse sulla base di questi due esempi si può comprendere come il linguaggio cinematografico abbia le sue regole e le sue condizioni che meritano maggiore attenzione nella formazione scolastica (e non extra-scolastica) delle giovani generazioni, abituate a consumi veloci dalla durata di un tweet o alla ricerca facile di un consenso. Linguaggio che merita anche una copertura mediatica differente, diversi incentivi pubblici (bene il tax credit, ma qual è la soluzione per un giovane cineasta?) e una centratura più sulla qualità delle varie fasi del cinema (dalla scrittura fino alla distribuzione "pensata" in sala e a una rinnovata mentalità della programmazione nelle sale di città, spesso abbandonate). Il nostro cinema è vivo. E tra poche ore anche il Festival di Venezia, con la sua selezione e la scelta degli italiani in concorso e non, lo dimostrerà.