Casi storici. Quando il Duce credeva di essere Napoleone
Mussolini a cavallo (dalla trasmissione televisiva LA GRANDE STORIA IN PRIMA SERATA "1936" di Nicola Caracciolo)
Le analogie tra le figure storiche di Mussolini e di Napoleone sono state analizzate finora soltanto alla superficie. Ma, sebbene i parallelismi tra i due personaggi non vadano enfatizzati, resta un fatto che le loro vicende presentano punti di contatto poco conosciuti. L’occasione è propizia per occuparcene, dato che il 15 agosto prossimo ricorrono i 250 anni dalla nascita del condottiero corso, imperatore dei francesi, che imperversò a lungo, nel bene e nel male, nel Continente europeo.
Cominciamo col dire che il Duce ammirava Bonaparte: e che tale sentimento crebbe, mano a mano che il capo del fascismo si trovò a ricalcarne, mutatis mutandis, le orme, fondando anch’egli un impero. Mussolini, anzi, era in qualche modo ossessionato da Napoleone; e se, da un lato, cercava di trarre insegnamento dalla sua vita, e dai suoi errori, dall’altro, per nemesi storica, era fatalmente trascinato, con il suo emulo e alleato Hitler, verso il medesimo abisso in cui sprofondò il dittatore corso.
Affidò a Giovacchino Forzano la sceneggiatura di un dramma storico sui Cento giorni - la breve stagione di resurrezione di Bonaparte, prima di Waterloo -, intitolata Campo di Maggio. Un’opera la cui paternità molti riconducono a Mussolini stesso, quantomeno nell’elaborazione del soggetto. Durante una famosa intervista concessa, nel 1932, allo storico tedesco Emil Ludwig, il Duce dichiarò: «Non ho mai preso Napoleone a modello, poiché non sono affatto da paragonare con lui, e la sua attività fu del tutto diversa dalla mia. Egli ha concluso una rivoluzione, io ne cominciata una».
Poco dopo, tuttavia, quasi contraddicendosi, ammise che la considerazione verso il suo 'predecessore', era aumentata dopo essere divenuto capo del governo. Il giornalista svizzero Paul Gentizon, amico di Mussolini, raccolse una sua confidenza, il 28 ottobre 1934, in occasione dell’inaugurazione delle nuove sale del Museo napoleonico di Roma. Il Duce, narrò Gentizon, dopo aver osservato tutti i cimeli esposti, si fermò bruscamente davanti alla sciabola che Bonaparte aveva con sé, nella battaglia delle Piramidi del 21 luglio 1798: «La prese in mano, la soppesò e ammirò a lungo la finezza della lama. E senza dissimulare in alcun modo la commossa simpatia che il grande imperatore gli ispirava, mi disse: 'Da quando governo un grande paese, il rispetto che ho per Napoleone va sempre aumentando'».
Molti sono i riferimenti elogiativi che, in scritti o discorsi pubblici, Mussolini riservò a Bonaparte, che, per i suoi natali e le sue ascendenze familiari, considerava a tutti gli effetti un italiano, e dunque, un proprio antenato. Il 28 ottobre 1932, lo definì «della stessa razza dei Dante e dei Michelangelo»: ossia, un genio assoluto.
Sul piano storico fattuale, esistono suggestive similitudini tra l’uno e l’altro. Tanto per cominciare, erano entrambi venuti a luce, sotto la costellazione del leone. Il che, insegnano gli astrologi, indica una ben precisa dominante caratteriale, contraddistinta da forte volitività. In secondo luogo, nel loro percorso politico, sul terreno di guerra, incontrarono lo stesso tenace avversario: l’Inghilterra.
La nazione d’Oltremanica, infatti, se sbarrò il passo al consolidamento della supremazia francese in Europa, poco più di un secolo più tardi, bloccò le aspirazioni dell’Italia mussoliniana, non soltanto ad affermare la propria potenza nel Mediterraneo, ma anche a insediarsi, mediante le sue sponde coloniali affacciate sul Mar Rosso, lungo la rotta per l’Oceano Indiano. Ma sono alcune circostanze perlopiù sfuggite anche allo sguardo indagatore degli storici, a permetterci di ravvisare le più sorprendenti analogie. Sia Mussolini, sia Napoleone, subirono una rovinosa caduta, che comportò la perdita totale del potere e la prigionia, cui seguì una risurrezione più o meno effimera.
Dopo la disfatta subita durante la campagna di Russia, e la sconfitta, dell’ottobre 1813, nella battaglia di Lipsia che chiamò a raccolta gli eserciti di tutta Europa coalizzati contro di lui, l’imperatore subì l’onta dell’invasione della Francia da parte delle armate straniere. Il 6 aprile 1814, abdicò, a Fontainebleau, e fu quindi esiliato all’isola d’Elba. Tornò in auge, durante i Cento giorni, tra il marzo e il giugno del 1815, allorquando, riconquistato il potere e dunque la piena autorità in campo militare, affrontò per un’ultima volta i suoi nemici, sul campo di battaglia, finendo definitivamente battuto a Waterloo, alle porte di Bruxelles. A quel punto, venne confinato all’isola di Sant’Elena, ove morì. Quanto a Mussolini, disarcionato dalla congiura di palazzo del 25 luglio 1943, e avviato a diversi luoghi di detenzione, fu liberato, il 12 settembre successivo, nel corso di un blitz condotto da un nucleo speciale tedesco.
Fu quindi Hitler a rimetterlo in sella, non per cento, ma per seicento giorni, durante l’esperienza della Repubblica sociale italiana terminata con la definitiva sconfitta dell’Asse. Ma davvero pochi hanno osservato le somiglianze che ricorrono nelle circostanze della drammatica fuga di Napoleone da Fontainebleau, nel 1814, e in quelle del disperato viaggio di Mussolini incontro alla morte, 131 anni più tardi. Innanzitutto, i due eventi si compirono nei medesimi giorni dell’anno. Bonaparte si avviò verso la costa meridionale della Francia, il 20 aprile 1814, giungendo a Fréjus, il 27. Avrebbe dovuto imbarcarsi per l’Elba la mattina del giorno successivo, ma spasmi allo stomaco lo bloccarono a terra per alcune ore. Com'è noto, il Duce, partito da Milano la sera del 25 aprile 1945, trovò la morte, sul lago di Como, il successivo 28. Ma c’è dell’altro. Com’è noto, Mussolini tentò di evitare l’arresto, da parte dei partigiani, indossando un cappotto militare tedesco, e salendo su un autocarro della Wehrmacht che viaggiava nella stessa colonna alla quale si erano uniti i relitti dello Stato fascista in ritirata.
Napoleone, per poter attraversare incolume gli ottocento chilometri che lo dividevano dalla costa Sud, e sottrarsi così al linciaggio della folla inferocita, si camuffò anch’egli, indossando alcuni capi dei commissari della scorta armata che lo deteneva: l’uniforme da generale dell’austriaco Franz von Koller, il berretto da colonnello del prussiano Friedrich von Truchsess-Waldburg, e il mantello del conte russo Schouvaloff.