Calcio. Quando gli sponsor scesero in campo
Il Barcellona di Messi, ultima big che si è arresa allo sponsor
In quei tempi, la regina era la casa. Estate 1981, quella in cui il calcio italiano liberalizzò gli sponsor sulle maglie. Lontani ormai i tempi pionieristici degli abbinamenti, fu la vittoria degli avanguardisti della sponsorizzazione, ingegnosi benché irregolari - i marchi commerciali extracalcistici sulle divise erano allora vietati - ma destinati al successo. Il primo caso di sponsorizzazione risale comunque a 40 anni fa e vide protagonista il pastificio Ponte fatto passare come fornitore tecnico da parte del Perugia del presidente Franco D’Attoma (per pagare l’ingaggio di 400 milioni di vecchie lire a Paolo Rossi, acquistato dal Vicenza), cui seguirono i gelati Sanson sui pantaloncini dell’Udinese. Tutti e due i club vennero multati, ma il muro crollò così, perché c’era sempre qualcuno che ne inventava una nuova. Eccola, allora, la rivoluzione: 100 centimetri quadrati disponibili, e tutte le 16 squadre della A sfruttarono l’occasione.
Marchi suggestivi che agli appassionati ricordano qualcosa ma, in filigrana, quella che potrebbe sembrare una curiosità aiuta a comprendere, in una prospettiva diacronica, anche un po’ della storia del nostro Paese. Quella dei consumi voluttuari, perché la pubblicità questo è: creare un bisogno. E, in un’Italia che voleva cambiare passo come quella dell’epoca, ecco i consigli per gli acquisti applicati allo sport nazionale, pronti a macchiare anche i sacri colori sociali. Elettrodomestici e orologi, cucine, ceramiche, pentole, pasta, vini: 10 dei primi 16 sponsor della A guardavano alla casa appunto, alla cucina soprattutto. Spazi da riempire con qualcosa che, da borghese, stava diventando popolare. «Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà», avrebbe cantato qualche anno più tardi Raf a Sanremo: era Cosa resterà (degli anni 80) e non per nulla i produttori di jeans, in quella prima infornata di marchi, erano in effetti tre.
C’era ancora spazio per i business locali - i marchi artigiani del pellame sulle maglie del Pisa - e persino per i quotidiani (Fiorentina in A, Triestina in B, Pa- lermo in C) e qui davvero si intuisce facilmente come si trattasse davvero di un altro mondo. Intanto crescevano i centimetri utilizzabili, cambiavano i consumi, si modificavano di conseguenza gli sponsor: il settore alimentare - quello che oggi chiameremmo food & beverage - ha vissuto la sua epoca di gloria in quegli anni, ma già alla fine del decennio ha iniziato a perdere posizioni. Entravano, con tutto il loro peso, banche e assicurazioni, comparivano le prime catene di distribuzione, dagli elettrodomestici e dalle apparecchiature per ufficio si passava all’elettronica di consumo. Sono gli anni Novanta, con le prime multinazionali, e si parla ora di cifre ben più elevate nelle casse dei club: le case automobilistiche presero a pubblicizzare anche i singoli modelli (sulle ricche divise del Milan, ad esempio) e nella prima metà degli anni 2000 il settore automotive, fornitori compresi, arrivò anche a comparire sul 20% delle maglie della A.
Ma era già il momento di un nuovo bisogno: l’informatica, le prime connessioni web veloci, i telefonini. Una scelta di campo, inteso non da gioco ma di tacche sul cellulare, ed ecco così l’effimero fenomeno mediatico del Cervia del reality Campioni-Il sogno abbinarsi ad un operatore telefonico; siamo in Eccellenza, pieno dilettantismo, ma con cifre che avrebbero fatto gola a diversi club della massima divisione. Comunicazione distintiva, accesso privilegiato ai media, costruzione di un’immagine, rafforzamento del brand: all’origine di ogni sponsorizzazione c’è sempre una chiara strategia commerciale. Ma anche questa parla dei consumatori, perché ad essa si rivolge. Oggi sulle maglie della nostra Serie A gli sponsor sono dappertutto. Sono 650 i centimetri quadrati totali disponibili (oltre sei volte l’area concessa nel 1981), gli spazi sono quattro (main sponsor e cosponsor sul fronte, back sponsor sul retro, sleeve sponsor sulla manica) e, nella stagione in corso, la cifra complessiva portata alle casse dei club è di circa 125 milioni di euro, un dato destinato ad aumentare di qui a fine torneo se si pensa che alcune società - la Spal, ad esempio - si accordano con il main sponsor anche solo per una manciata di partite. Una cifra che, tuttavia, non si presta alla media del pollo e, allo stesso tempo, palesa anche differenze sostanziali nel modello stesso di business, si pensi a titolo esemplificativo ai 18 milioni che Mapei versa al Sassuolo, di cui è la controllante.
È piuttosto recente, tuttavia, la comparsa sulle maglie nostrane dei loghi dei munifici investitori del Golfo (i vettori aerei di Qatar ed Emirati Arabi, presenti anche sulle divise di diversi e prestigiosi club esteri), così come quella di aziende che hanno il proprio core business nel mercato dell’energia o nella virtualità del web. Servizi, più che prodotti: nulla nasce dal caso. Se l’egemonia non è ora delle multinazionali del betting (gioco d'azzardo), lo si deve solamente al Decreto dignità che, nel 2018, vietò la pubblicità dei giochi d’azzardo. In una mezza dozzina di anni, a rotazione, oltre la metà delle squadre di A aveva avuto sulla maglia uno sponsor del settore che in Inghilterra viene definito gambling - con accezione più negativa e incentrata proprio sull’azzardo - e proprio in Premier mostra tutta la sua potenza di fuoco sponsorizzando ben 10 delle venti squadre della attuale campionato. Report Calcio 2019, l’ultima analisi della Figc sullo stato dell’arte del pallone relativo alla stagione 2017-2018, contava 227 sponsor sulle maglie delle 98 società professionistiche italiane: il 26% era riferibile ad aziende estere, con il settore bancario e assicurativo primo nei numeri con 26 sponsorizzazioni, davanti appunto al betting con 23. Viene allora da sorridere a ripensare a quando, ben prima del Barcellona, furono Catanzaro, Brescia e Piacenza a portare sulle maglie il logo dell’Unicef, e in fondo in questo panorama risaltano le scelte più identitarie, come gli sponsor sardi del Cagliari - gran parte di quelli veicolati dalla maglia dal 1981 ad oggi - o quelli di promozione turistica locale che si sono visti, nel tempo, anche sulle divise di Lecce e Palermo. Logiche commerciali che, a ben guardare, raccontano di noi, del nostro quotidiano, dei nostri bisogni più o meno indotti.