Ebraismo. L'esegesi rabbinica e il coltello di Abramo su Isacco
Caravaggio: "Sacrificio di Isacco" (1603) - Galleria degli Uffizi
Chi fa visita alla moschea di Omar o Cupola della roccia, a Gerusalemme, viene istruito sul fatto che quel luogo corrisponde al monte Moriah dove, secondo antiche tradizioni ebraiche (e cristiane e musulmane), Dio avrebbe creato Adamo ed Eva e dove sorgeva l’altare del Tempio costruito da re Salomone, per secoli “luogo di espiazione dei peccati”. In quel luogo è collocata anche la scena biblica dell’aqedat Itzchaq, che in ebraico significa “la legatura di Isacco”, secondo il cui racconto Abramo si accinse a sacrificare il figlio della promessa avuto già novantenne con Sara, ma che non fu immolato come l’ingiunzione divina sembrava ordinare. Poche pagine della Scrittura, sacra a ebrei e cristiani, sono state più venerate e studiate, commentate ma anche criticate. Per un assaggio delle infinite interpretazioni che nel corso dei secoli l’ebraismo ha sviluppato su quest’episodio c’è ora un’accurata e ricca antologia di commenti, introdotti e tradotti dai testi originali dall’ebraista Luigi Cattani, che ha lavorato a lungo sull’esegesi dei rabbini medievali Rashi e di David Kimchi e che ora ha predisposto un testo molto intenso che combina rigore scientifico e sensibilità spirituale (due cose che non sempre si trovano abbinate con equilibrio). Con La Aqedah. Il sacrificio di Isacco. Commenti ebraici attraverso i secoli (Lev, pagine 298, euro 25,00) il lettore cristiano ha così la possibilità di accostarsi a un testo biblico nel quale l’anima ebraica si è rispecchiata soprattutto nei momenti più difficili, di persecuzione e di martirio.
La prova a cui è sottoposto Abramo è per gli ebrei religiosi un modello: che fossero i massacri che colpirono le comunità della valle del Reno nel 1096 (al passaggio dei crociati) oppure le accuse di diffondere la peste o i rastrellamenti nazisti con deportazione ad Auschwitz, la fede di “Abramo nostro padre” narrata in Bereshit/Genesi 22 è stata di conforto e di speranza, specialmente quando quelle tragedie storiche non finivano affatto con l’intervento dell’angelo e la salvazione dei propri figli, quando cioè nessun ariete era lì pronto a sostituire le vittime sull’altare dell’odio. Il racconto biblico non di rado è stato usato per protestare contro Dio, gridargli una disperazione e un’angoscia che i maestri di Israele hanno sempre intravisto nel silenzio, surreale e opprimente, che avvolge i tre giorni di viaggio di padre e figlio verso il Moriah. Nel corso del XIX secolo il filosofo luterano Kierkegaard ha elevato quel silenzio a cifra del “timore e tremore” di ogni vera esperienza di fede, che sfida la ragione e persino quel senso di etica o moralità che si suppone la religione debba garantire. Non pochi pensatori contemporanei dell’ebraismo si sono cimentati con la lettura del danese, ora per apprezzarla (in nome dell’emunà, della fiducia totale in Dio) ora per contestarla (in nome di un’etica che nella Torà non è mai contrapposta alla vera fede).
In quest’antologia Luigi Cattani fa risuonare molte di tali interpretazioni, dando significativo rilievo al Targum Neofiti, ossia una delle traduzioni aramaiche che si diffusero già a partire dal I secolo, e ai midrashim, le interpretazioni e interpolazioni più libere che i rabbini costruirono sugli spazi vuoti, sui silenzi appunto, del testo. La filosofia ebraica si è espressa sulla “legatura di Isacco” con Filone Alessandrino e poi con Maimonide, qui ricordati nella lunga introduzione del curatore che ha antologizzato soprattutto i commentatori medievali, tra cui i poco noti Nachmanide, Bachyà ben Asher e Obadià Sforno, per il quale la prova a cui fu sottoposto Abramo gli valse sia la protezione delle propria discendenza, sia la benedizione per tutti i popoli della terra. Certo, la teologia cristiana ha letto in quei diciannove versetti anche una prefigurazione del sacrificio cristico, ma quest’antologia non si preoccupa di “saldare” il gap tra le diverse interpretazione religiose, ebraiche e cristiane, della vicenda. Con molto rispetto Cattani riporta le molteplici risonanze del testo nella storia e nella spiritualità del mondo ebraico, arrivando ad alcuni commenti chassidici come quelli dei rebbe Elimelech di Lizensk e Menachem Mendel di Kotzk, per il quale «nulla va anteposto all’assoluto di Dio», e come gli insegnamento il rebbe di Lubavitch, Menachem Schneersohn, per il quale la contraddizione dell’aver avuto un figlio in tarda età ma doverlo infine sacrificare mostra in Abramo un «pioniere del sacrifico del sé» dove la fede opera precisamente nell’ambito dell’umano impossibile.
Pagina dopo pagina tali commenti evidenziano il ruolo attivo che Isacco ebbe nella storia: quasi tutti i maestri concordano che egli non era un bambino ma aveva trentasette anni quando fece la salita verso il Moriah e sapeva benissimo quel che stava succedendo, ma accettò la decisione del padre di obbedire a Dio. Fu salvato, sebbene il midrash ci riveli che lo shock costò la vita a sua madre Sara. È l’altra faccia della storia, che la Bibbia non racconta ma che l’insegnamento orale (che sempre accompagna nell’ebraismo la Toràscritta) non ci risparmia. L’esperienza del divino, se autentica, non lascia le cose come prima. Timore e tremore, spiegano Kierkegaard e il rebbe di Kotzk, sono superati solo dall’amore, ma non rimossi né contraffatti con idee teologiche sdolcinate. Lo sanno bene gli ebrei che leggono in sinagoga questa pagina ogni Rosh hashanà, a capodanno, mentre si ascolta con timore e tremore il suono dello shofar, il corno di ariete, in ricordo di quella prima e archetipica aqedah: la “legatura di Isacco” (e non il “sacrifico di Isacco”, come dice, certamente a scopi divulgativi, il titolo del pur meritorio volume).