Il caso. Qatar, il calcio come inganno per gli immigrati
Un'immagine dal documentario "The Workers Cup" del regista Adam Sobel
Il Qatar ha appena completato il primo stadio con aria condizionata in vista dei Mondiali 2022: il Khalifa International Stadium di Doha è dotato di un modernissimo sistema di condizionamento che permetterà di mantenere sul terreno di gioco una temperatura di 26 gradi, mentre sugli spalti varierà tra i 24 e i 28 gradi per i suoi 40mila spettatori. E questo nonostante i Mondiali siano stati spostati eccezionalmente in inverno, a causa delle torride temperature, cosa che ha indispettito il pubblico e le emittenti tv. Mentre nei “sacri palazzi” del calcio miliardario si discute di diritti televisivi, faraonici progetti da archistar e inciuci che hanno decapitato i vertici Fifa, Umesh, 36enne operaio edile indiano, alza lo sguardo allo scassato condizionatore dell’infermeria. Considera fortunato il suo amico che si è fatto male a una gamba nel cantiere di uno stadio e ora può starsene ingessato su un letto al fresco. Non come lui e gli altri 4000 lavoratori provenienti da Africa, India, Filippine, Bangladesh e Nepal che vivono in piccoli torridi prefabbricati dalle condizioni igieniche precarie nel campo di Umm Salal, lontano dalla città, nascosto fra l’autostrada e il deserto.
Uno dei tanti che ospitano il milione e seicentomila lavoratori migranti ingaggiati per costruire le infrastrutture dell’evento sportivo più importante del pianeta e che rappresentano il 60% della popolazione del Qatar, ma senza diritto alla cittadinanza. Anzi, che, secondo i recenti rapporti di Amnesty international e Human Right Watch, vivono in condizioni di autentica schiavitù e pericolo di vita (secondo l’Associazione internazionale dei sindacati il Mondiale alla fine costerà la vita di 4000 lavoratori). «Se dici che vivi in un campo, le ragazze pensano che sei un rifugiato. E quando mai troverai una ragazza? Già è impossibile uscire da questo recinto senza il permesso del datore di lavoro…» sorride malinconico Paul, 21 anni, un romanticone arrivato dal Kenya con grandi speranze e che ora si vergogna di dire a suo padre che lavora 12 ore al giorno a pelare zucchine e pulire pentoloni per meno di 200 dollari al mese. Ma un giorno, all’improvviso, anche per loro, lavoratori invisibili, sottopagati e senza diritti, esclusi dallo splendente circo mediatico dei Mondiali 2022 (valore 140 miliardi di dollari) arriva una scintilla di riscatto grazie proprio a un torneo di calcio a loro dedicato.
Commuove, esalta e ci fa arrabbiare The Workers Cup, il bel documentario del regista Adam Sobel, applaudito anche allo scorso Sundance Film Festival e proiettato ieri al festival “Le voci dell’inchiesta” di Pordenone sostenuto da Cinemazero. Sponsorizzato dal Comitato Supremo della Coppa del Mondo Qatar 2022, il torneo nel 2014 ha coinvolto le squadre di lavoratori di 24 compagnie impegnate nella costruzione delle infrastrutture dei Mondiali. Un’operazione di facciata per finire sui giornali e che facilita l’arruolamento di altri moderni schiavi, allettati dal vedere i loro colleghi all’estero giocare a calcio di fronte a folle entusiaste, ammette un organizzatore davanti alla cinepresa. Ma per i lavoratori, giocare a calcio porta un momento di sollievo e di riscatto nelle loro vite disperate. Vite in balia dei loro datori di lavoro secondo una legge capestro come la “kafala” che il Qatar, messo sotto pressione internazionale, dichiara di avere abolito anche se occorrerà vedere i risultati effettivi: le ditte possono trattenere il passaporto degli operai, farli lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni su 7 e impedire loro sia di cambiare mestiere sia di tornare in patria.
E così in un documentario che ci emoziona come Fuga per la vittoria di John Huston, ci ritroviamo a fare il tifo in questo moderno lager per il Gcc team, la scalcagnata squadra della Gulf Contracting Co. Il capitano è Kenneth, un bel ragazzo di 21 anni del Ghana, aspirante calciatore ingannato dal suo agente che al prezzo di 1500 dollari lo ha spedito in Qatar con la promessa di entrare in una squadra di calcio, mentre invece si è ritrovato schiavo in un cantiere. Lui motiva il gruppo e, mentre si fa il segno della croce entrando in campo, spera che qualche scout del calcio lo noti. Un talentuoso portiere che ha militato nella prima divisione del Ghana, ma senza riuscire a viverci, Samuel, è troppo orgoglioso per dire al padre che si ritrova a spalare pietre nel deserto e gli dice che in Qatar è diventato calciatore professionista.
Padam, dal Nepal, è un geometra che guadagna 400 dollari al mese, troppo pochi per avere diritto a ricongiungersi con sua moglie (occorre un reddito di circa 2500 dollari) e a causa della lontananza il matrimonio sta andando a rotoli. Con tutto questo carico emotivo sulle spalle e la fatica quotidiana nei muscoli, questi uomini si allenano, fanno squadra, sperano nella libertà e combattono partita dopo partita arrivando alle semifinali come in un sogno. Uno dei loro gol vale mille volte di più di qualunque strabiliante rovesciata di Ronaldo. I sogni, si infrangono in una manciata di rigori, e in un pur meritatissimo quarto posto. Il giorno dopo, si torna alla dura realtà: i più bravi, Kenneth e Paul, provano a chiedere agli organizzatori una chance per diventare calciatori.
«Ci spiace, per le regole del Qatar dovete lavorare altri 5 anni nei cantieri, poi si vedrà» li liquida un imbarazzato mister. Davanti allo scoramento generale da applauso è il discorso del capocantiere: «Non dividetevi fra di voi. Questo è l’inferno, quel mondo è per i ricchi, non è per noi. Stanno abusando di noi, siamo schiavi, ma ricordatevelo, siamo i migliori di tutti». Una lezione di dignità registrata da Adam Sobel, che fa parte di una associazione, “Behind the camera”, di giovani ma già premiati filmaker tutti residenti in Qatar, decisi a raccontare storie del Medio Oriente e del Nord Africa al mondo. «La storia dei lavoratori dei mondiali è intorno a noi, ma così difficile da penetrare se non in una maniera superficiale - spiega il regista -. Questo torneo è stato una opportunità unica di passare del tempo reale con questi uomini. Abbiamo seguito i loro racconti di speranza, di ambizioni deluse e di solitudine attraverso gli anni. Le loro storie parlano di tantissimi altri lavoratori migranti in giro per il mondo, non solo in Qatar».